Istanbul brucia. Simbologia di una rivolta

2 Giugno 2013
Redazione YOUng
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8ca773475271285230d4da777a41affa_immagine_ts673_400C’è una foto, delle innumerevoli scattate in questi giorni di proteste in Turchia, che sta facendo il giro del mondo. Quella che ritrae una ragazza in piazza Taksim, a Istanbul, immobile, in piedi in mezzo alla strada, colpita da un getto d’acqua partito da un idrante della polizia.

Come quella del manifestante di fronte ai carri armati a Tienanmen, anche questa foto è assurta rapidamente a foto simbolo delle manifestazioni che stanno incendiando Istanbul e decine di città turche contro il governo di Erdogan. Nata come protesta ambientalista contro la costruzione di un centro commerciale, di una moschea e di una caserma nelle zone dove ora sorgono piazza Taksim e i 600 alberi del Gezi Park, uno degli ultimi polmoni verdi del lato europeo di Istanbul, la rivolta contro le decisioni del governo si è estesa a tutte le principali città turche, assumendo un significato più ampio di resistenza contro le politiche di Erdogan e del partito Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), che combinano il conservatorismo islamista al liberismo economico, facendo della Turchia l’alleato più fedele della Nato e degli Stati Uniti fra i paesi islamici.

La foto della ragazza sotto il tiro degli idranti non è l’unica immagine destinata ad entrare nella simbologia delle proteste di questi giorni. Moltissimi dei manifestanti sono scesi in piazza tenendo in mano bottiglie di birra, simbolo della rivolta contro il proibizionismo del governo, che la settimana scorsa ha imposto un duro giro di vite sul consumo di bevande alcoliche.

Partendo spunto anche da questo episodio, numerosi giornali europei hanno subito catalogato le motivazioni della rivolta nella angusta categoria, già utilizzata per parlare della primavera araba, del “desiderio di occidentalizzazione”, dimenticando che fin dai tempi della Guerra Fredda la Turchia è stata fedele alleata degli Stati Uniti e del blocco occidentale, e che le politiche economiche adottate da Erdogan sono state fin troppo “occidentali” nel piano di privatizzazioni portato avanti allo scopo di rendere l’economia turca fra le 10 più forti del mondo entro il 2023. Se l’”islamismo strisciante” (come lo ha definito qualcuno) di Erdogan è certamente una delle ragioni della rivolta, il complesso insieme di motivazioni che hanno portato una protesta locale contro la cementificazione di un parco e di una piazza ad assumere un significato molto più ampio non può certo essere ridotto ad una categoria che, oltre ad essere limitante, puzza lontano un miglio di razzismo culturale (anch’esso strisciante): a tantissimi giornalisti della stampa occidentale non passa nemmeno per la testa la possibilità dell’esistenza di modelli culturali diversi dall’aut-aut fra “democrazia occidentale” (qualunque cosa tale definizione significhi) e “fondamentalismo islamico”. Per cui, se dei giovani protestano contro le politiche di un governo islamico (e però alleato dell’Occidente, cosa che in molti tendono a omettere, non ci è dato sapere se in buona fede o meno) è perchè essi “vogliono essere occidentali”, dato che il punto di arrivo di un qualunque movimento progressivo non può altro che essere la società occidentale, regno della Libertà, della Democrazia, e di tutte quelle altre belle parole con la maiuscola che in realtà possono significare tutto e nulla.

Anche questa volta, per fare almeno un po’ di luce su quel groviglio di cause scatenanti che ha innescato la miccia dell’incendio di Istanbul, la simbologia aiuta. In effetti, ragionando bene, una tale protesta locale non poteva far altro che assurgere ad un significato più vasto: da una parte, abbiamo ciò che i manifestanti stanno cercando di difendere: un parco (polmone verde della città) e una piazza (peraltro storico luogo di raduno delle manifestazioni della sinistra turca), due luoghi di aggregazione e di socializzazione “dal basso” all’interno di una metropoli che negli ultimi anni ha conosciuto una cementificazione selvaggia. Dall’altra, ciò che il governo vorrebbe costruire al posto di questi due luoghi: una caserma, una moschea, un centro commerciale. I simboli del potere militare, di quello religioso e di quello politico. Parrebbe quasi una favola allegorica. Una favola allegorica che ritrae non solo la complessità della situazione turca, dove un mix di autoritarismo e militarismo (e dunque la caserma), islamismo (la moschea) e economia di mercato (il centro commerciale) sta minacciando di “far perdere l’anima” ad un paese che è sempre stato crocevia di culture fin dai tempi dell’Impero Ottomano, ma anche quella di tutto il mondo contemporaneo.

Fa bene il filosofo sloveno Slavoj Zizek a far notare come il modello turco sia la prova vivente del fatto che il libero mercato non implichi libertà sociale, e di come questo possa coesistere invece benissimo con politiche autoritarie. In tempi di crisi e di proteste globalizzate contro il liberismo, la protesta turca non può che riguardarci tutti, proprio a causa del suo profondo significato archetipico e universale: contro i poteri costituiti che minacciano le nostre libertà, che tendono ad assoggettare i cittadini a decisioni e modelli culturali sui quali essi non hanno alcuna voce in capitolo, siamo tutti chiamati a difendere i nostri spazi democratici e di vita comune minacciati dall’impersonalità del meccanismo capitalista.

La grande sfida del nostro tempo, in fondo, non consiste altro che in questo: nel riuscire a difendere i nostri parchi e le nostre piazze dalle moschee, dalle caserme e dai centri commerciali di questo mondo.

L'AUTORE
La redazione di YOUng
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