La mafia come metodo: conoscerla è arrestare la sua contagiosità

23 Ottobre 2013
Redazione YOUng
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Mafia

Per scrivere di mafia servono periodi di incubazione, periodi in cui chi intende parlarne, conoscendone le cause, le conseguenze e riconoscendone i sintomi, deve consumare gli occhi su testi, articoli, libri, sentenze processuali e film.
L’incubazione è quella fase che aliena chi scrive, che lo rende incapace di vedere altro, oltre il suo oggetto di studio. Che lo rende perciò ossessivo in quello che fa.
La mafia non lascia spazio: quando ci sei dentro, tutto è mafia, ed ogni fatto, notizia, incidente diviene per lo scrittore o il giornalista che scrive di mafia, un modo per indagare e vedere al di là della semplicità, applicando la teoria appresa sui libri alla realtà di tutti i giorni.
Chi scrive di mafia filtra ogni singolo particolare secondo la propria esperienza e il proprio sapere e quando si trova di fronte al fatto, nudo e crudo, finisce per sentirsi spiazzato dall’ovvietà e dalla “banalità del male”.
E’ esattamente quello che è successo a me. E’ esattamente quello che succede quando il paese in cui vivi viene travolto da un fatto atteso o sospettato da tempo, ma che comunque ti stupisce e ti coglie impreparato.
Impreparato come la politica che tace, impreparato come i tuoi concittadini che parlano senza vedere, senza scandalizzarsi più.

Giuseppe Lombardo, arrestato il 9 ottobre nei pressi di Altopascio (Lucca) insieme ad altre 12 persone con l’accusa di associazione a delinquere aggravata dal metodo mafioso, viveva in Toscana da molti anni. Viveva nel mio paese, a nemmeno troppi passi da me, senza che io ne avessi percepito la presenza.
Sinora per me la mafia in Toscana era una coltre trasparente, una nebbia bianchiccia che sapevo riconoscere e annusare, ma che non riuscivo a toccare.
La mafia in Toscana per me era veder spuntare come funghi negozi “compro oro”, era vedere il proliferare di “sale slot”, era osservare l’avvento spietato dell’abusivismo edilizio, era leggere di qualche blitz estivo, era venire a sapere di qualche camion andato a fuoco o di qualche gas chimico fuoriuscito dal terreno di un ex parco naturale.
Fino ad adesso non aveva un nome, una faccia, un indirizzo certo.
C’era, ma non si chiamava Giuseppe Lombardo.

Riconoscere e accettare la mia incredulità è stato il passo più doloroso. Non credevo di poter rimanere sorpresa da una notizia del genere. Ma ho scoperto, a mie spese, che si rimane sempre sorpresi in questi casi.
La verità arriva quando meno te lo aspetti ed è uno schiaffo in pieno viso.
Ho realizzato, e realizzare ti fa capire i motivi per cui sia sempre più facile per le mafie attecchire sui territori nuovi e un tempo immuni e sul perché la gente faccia fatica a vedere e ad accettare la realtà.
Le mafie riescono a infiltrarsi perché ci colgono impreparati. Maledettamente impreparati.
Sfruttando l’effetto-sorpresa, nascondendosi per anni per poi palesarsi drammaticamente, con balzi spettacolari ed eclatanti, quasi da film, che travolgono e spazzano via le certezze della politica e della cittadinanza disattenta.
Cadere dalle nuvole produce un tonfo sonoro. La testa rimane confusa per giorni o per settimane e tutto viene rimesso in discussione. Ed io torno ossessivamente a chiedermi come si faccia a non vedere.
Odio questa mia ossessione. La odio come odio l’indifferenza, come odio l’ipocrisia, come odio tutto questo nascondersi dietro bugie di cartapesta.
La mafia è un metodo. E il metodo mafioso ha una sua contagiosità.
Nelle aree e nelle regioni di nuovo insediamento cerca i modi e le forme di infiltrazione che risultano essere più compatibili al sistema preesistente, così da infettarlo e sfruttarlo senza traumi.
Ma la mafia è anche assecondare le organizzazioni criminali fornendogli, grazie al silenzio, un’impunità e un’aurea di imbattibilità ingiustificabile. E’ utilizzare i suoi stessi modi, è adattarsi alle sue pretese e alle sue dinamiche, è utilizzarla come alibi per comportarsi esattamente allo stesso modo, senza destare troppo stupore o troppo sospetto.
La mafia sopravvive, anzi, vive e fiorisce, sbocciando continuamente sotto forme nuove e inaspettate, non perché eterna, ma perché tollerata, approvata e supportata, come ci testimoniano e ci suggeriscono i processi ancora in corso a Palermo e a Caltanissetta.
Processi che hanno come protagonisti politici, carabinieri, poliziotti. Processi continuamente ostacolati proprio perché così delicati e significativi. Processi che ci parlano di trattative, di accordi e compromessi tra le istituzioni e gli esponenti delle più spietate organizzazioni criminali. (Processo Trattativa Stato-mafia, Processo Borsellino Quater)
La mafia, insomma, siamo anche noi che sopportiamo tutto questo, senza chiederci perché sia così difficile parlarne. Noi che accettiamo le morti di chi ce la racconta, noi che aspettiamo che siano gli altri ad agire e ad esporsi per primi, noi che li facciamo diventare “eroi” solo dopo averli visti morti, saltati in aria, sparati in fronte, ridotti in poltiglia.
“La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”, diceva Giovanni Falcone.
Ma non finirà mai se non sapremo vederla e combatterla, se non sapremo sorprenderci e indignarci, se non sapremo accettarla, studiarla e capirla, senza ipocrisia, senza viltà e forse con un pizzico di ossessione.


di Martina Cagliari
marti.cagliari@gmail.com

L'AUTORE
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