Basta ai "basta alla violenza sulle donne"

18 Gennaio 2014
luciana
Per leggere questo articolo ti servono: 4minuti

Alta_3140173_Con-i-tuoi-occhi_oggetto_editoriale_720x600La violenza sulle donne” non è un esilarante stato “attira mi piace”, ma una problematica seria ed in quanto tale, meriterebbe maggiore “tatto” da parte di quelle stolte mani che impastano buonismo, frasi smielate e ad effetto, per conquistare consensi, utili ad accaparrarsi la credenziale di “animo sensibile e galante”.

La violenza sulle donne” non si combatte fotografandosi con delle scarpe rosse in bella mostra né cavalcando campagne pubblicitarie abili solo ad appagare frustrazione e vanità personale della maggior parte degli individui che aderiscono a quel “festival del cattivo gusto”, che, in maniera più o meno consapevole, incute ulteriore vergogna nelle menti e nelle coscienze di quelle donne, un tempo, già violate dalla bruta e ferina barbarie alla quale, certi uomini, sanno conferire massima e riprovevole espressione.

La violenza sulle donne” non è uno spot pubblicitario o la diva di turno che con occhi languidi prostra le sue formose grazie ai piedi della suddetta nobile causa.

Che Tizio o Caio dica: “Basta” non “basta” a fermare quel tripudio di piccole e grandi tragedie che, più o meno silenziosamente, si consumano, incessantemente, dentro e fuori le mura domestiche.

La violenza sulle donne“ non è una moda né uno slogan da sfoggiare per fare bella figura e catturare sguardi compiaciuti, soprattutto quando a partorirli è una bocca che non immagina, neanche alla lontana, su quale ripido sentiero si sta avventurando.

La violenza sulle donne” non può e non deve diventare un “evento consumistico” al pari di San Valentino e della “festa della donna”, perché non è porgendo una rosa bianca o nera o rossa o a pois che renderemo giustizia a chi è incapace di difendersi.

Una donna “vittima” di violenza non vuole e non deve “fare pena”, perché “pietà, tenerezza, compassione e commiserazione“  sono le coltellate più atroci che si possono imprimere al suo animo.

Piuttosto, siate capaci di togliere il velo d’ipocrisia che vi copre gli occhi per guardare la cruda realtà dei fatti.

Esistono tante tipologie di donne “vittime” di varie forme di violenza: quella che “va in giro sempre in minigonna, se l’è cercata!”; quella che “sei una bella ragazza, dovevi mettere in conto che poteva accadere”; quella che uomini gretti e subdoli rifilano utilizzando proprio qualche campagna contro il femminicidio, con l’unico intento di ripulirsi da ogni sospetto, per poi vestire i panni dello stalker; quella che una donna indirizza ad un’altra donna, tutte le volte che la chiama “puttana” perché ha le labbra contornate da un rossetto troppo marcato o perché sceglie di vivere una storia di sesso, alla luce del sole, senza nascondersi dietro sterili ipocrisie e rifiuta di cucirsi nel cuore un amore non reale; quella che “una  ragazza madre deve necessariamente essere una poco di buono”; quella che viene stroncata da un “ne sei sicura? È la tua parola contro la sua”; quella che viene recintata nel silenzio, perché il marchio che le stolte chiacchiere della gente sa imprimere addosso ad una “vittima” è indelebile e concorre seriamente a deteriorare serenità e stabilità emotiva; quella al cospetto della quale, le forze dell’ordine, prendono le distanze, liquidando la vittima con un crudo e risoluto: “si faccia seguire da un avvocato, potrà assisterla meglio, noi qui siamo pieni di denunce, chissà quando arriverebbe il suo turno” e quindi accade che la vergogna o la precarietà economica, dissuadono quella vittima dall’idea di “afferrare la sua fetta di giustizia” e di lì a poco, magari, si scopre che quell’urlo d’aiuto rimasto inascoltato è stato sgozzato dal suo aguzzino; quella che “ormai tutte accettano compromessi per fare carriera, devi adattarti”; quella che colpisce alle spalle, negando la possibilità di darle un volto; quella che ha un volto ben scolpito e mai e poi mai potrà sbiadire dall’album della memoria; quella che si giudica sulla base di un livido, della cui insorgenza ci importa solo per sfornare pettegolezzi, ma al cospetto del quale non tendiamo una mano, eppure diciamo di voler combattere “la violenza sulle donne”.

Diciamo”: voce del verbo “buono ed effimero proposito”, perché i fatti narrano che, nella vita reale, fuggiamo davanti alla violenza.

La violenza fa paura, terrorizza, paralizza muscoli, voce, lacrime e pensieri.

La violenza disarma anche quando non è armata, perché quando è un mostro a sbarrare la strada del destino, si inscena un duello impari, tra un orco e un essere umano.

E non è vero che uccidere è il reato più grave che un uomo può commettere.

Entrare di prepotenza nelle stanze più intime di una persona, vuol dire ucciderne la dignità e lederne irrimediabilmente la percezione di se, degli altri, della vita, del mondo.

E l’idea di condividere lo stesso cielo di quell’orco che ha tatuato la sua indelebile impronta di male nella quotidianità, nell’anima è la condanna più onerosa da espiare per la vittima, non per il carnefice.

Se solo spogliassimo le nostre azioni quotidiane dell’ipocrita abito di cinica falsità che portano pesantemente cucito addosso, forse, realmente saremmo capaci di combattere “la violenza sulle donne”.

Troppo utopistico sperare in una tanto sfrontata presa di coscienza, quindi, basterebbe semplicemente che riflettessimo, applicando il senso più sincero ed essenziale che si può tributare alla parola “riflessione”, prima di scrivere, parlare ed esternare pensieri ed opinioni, soprattutto al cospetto di tematiche nelle quali i nostri occhi rilevano la parola “violenza”.

Ammesso che “la riflessione” non venga considerata pratica obsoleta ed in quanto tale “non di tendenza”…

 

L'AUTORE
SOSTIENI IL PROGETTO!
Sostienici
Quanto vale per te l’informazione indipendente e di qualità?
SOSTIENICI