Cancro, disabilità e tabù. “E tu, quale principessa Disney sei?”

15 Febbraio 2014
Redazione YOUng
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Avete mai visto una protagonista disabile in un film Disney? Certamente no, perché la disabilità non è compatibile con gli standard Disneyani“.

Così Scrive AleXsandro Palombo sul suo blog.

zQuale principessa Disney sei?

AleXandro Palombo è un artista. Due anni fa, a seguito di una diagnosi clinica che evidenziava una rara forma di cancro, ha dovuto subire un intervento chirurgico invasivo e alcune parti del suo corpo sono ora paralizzate.

Adesso è una persona disabile  – racconta all’HuffPost UK – e ogni giorno ha a che fare con ogni tipo di discriminazione.

Attraverso il progetto ‘Disabled Disney Princesses‘, AleXandro ha voluto dare visibilità a questo problema di forte discriminazione diretta alle persone con disabilità che vivono nella nostra società.

Le Principesse Disney sono state a lungo intese dalle bambine come un modello a cui aspirare. L’artista, attraverso il suo progetto, cerca quindi di rispondere a questa domanda – mai fatta e ancora senza risposta: “Le vite delle principesse sarebbero le stesse se i loro corpi fossero differenti? E i film sarebbero così popolari?

Superfluo sarebbe ribadire come i personaggi femminili all’interno delle storie per bambine siano ancora icone di bellezza mainstream a cui aspirare. Molto meno spesso risultano immagini in cui le bambine possono davvero riconoscersi.

Da un paio d’anni utenti di tutto il mondo chiedono alla Disney di creare un personaggio femminile in cui, ad esempio, possano riconoscersi le bambine sottoposte a cicli di chemioterapia.

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I temi della malattia e della disabilità sono ancora profondi tabù all’interno della nostra società. Apparentemente se ne parla molto. Ad esempio, il tema del cancro è sempre “sulla bocca di tutti”. Leggiamo quotidianamente articoli di giornale che ci parlano delle “regole per prevenire l’insorgenza di tumori”, della “top 10 dei cibi anti-cancro”. Ormai conosciamo qualsiasi cosa su medicinali, sintomi, diagnosi, cura.

Molto meno spesso, però, si parla di corpi reali, di esperienze, di persone. La malattia, la disabilità sono percepite come errori di sistema, anomalie, qualcosa di “altro” rispetto al proprio io. Più se ne parla, in disquisizioni medico-scientifiche o popolari che siano, più in realtà ci si vuole allontanare dall’immagine che le accompagna, le si esorcizza e si invisibilizzano i corpi che nell’immaginario comune le rappresentano.

Siamo così assuefatti al bombardamento mediatico di corpi plastificati e artefatti, simbologia del principio di performance che ci impone il suo dictat, da non renderci conto che in realtà malattia e disabilità fanno parte della vita e dei corpi e non sono “altro” rispetto ad essi.

Sempre più spesso viene posto in essere un atteggiamento disfunzionale, non riconosciuto come tale perché dato per scontato, volto a considerare i corpi come simulacri immortali che hanno ragion d’essere in base all’immagine che danno di loro e alla qualità delle loro performance, offrendosi quindi ad una logica del fareprodurre,consumare.

Tutto diviene misurabile e misurato, catalogato, incasellato. Ciò che si discosta dalla norma, il non-previsto, è inquadrato come difetto, come problema, diventa perturbante e va marginalizzato, censurato.

Capita un po’ ovunque. Anche sulla nostra pagina facebook. A ottobre postavamo un’immagine della campagna “The SCAR Project“, accendendo involontariamente un dibattito. Non sulla campagna, non sul tumore al seno ma sull’immagine stessa.

The SCAR Project fa parte di una campagna di prevenzione del cancro al seno. Un lavoro portato avanti da David Jay e durato 6 anni, durante i quali sono state scattate fotografie a più di 100 donne. Ma il messaggio più profondo, come afferma l’artista, è un messaggio più generale che parla dell’umanità, intesa come realtà dell’essere umano: accettare ciò che la vita ci offre, tutta la bellezza e la sofferenza, in una società che nasconde il cancro al seno dietro ad un piccolo fiocco rosa. Perché questi corpi non esprimono solo sofferenza.

C’è qualcosa di così dolorosamente bello nell’umanità, una bellezza che trascende le immagini sfavillanti portate avanti dai media.

E allora perché la bellezza che sta nell’umanità di questi corpi disturba? Forse perché siamo abituat* al proliferare di corpi tutti uguali e disumanizzati, alla proposta continua di corpi omologati e omologanti, all’eliminazione dell’imperfezione, dell'”errore di sistema”. A tutti i costi.

Anche quando si tratta di rappresentare la vecchiaia non lo si fa raccontandola per quella che è ma la si riduce a feticcio da incastrare a forza nei soliti canoni – paradossalmente – di giovinezza, bellezza mainstream e performance, aprendo disquisizioni sull’estetica femminile. Anche la vecchiaia, la malattia, devono diventare glamour.

E così, forse, ci si convince che vecchiaia, malattia, disabilità non facciano parte della vita e possano rimanere argomenti ghettizzati negli studi medici, nei salottini televisivi o negli articoli di giornale dai titoloni sensazionalistici. Ci si convince che stiano tanto bene lì dove stanno, nascosti dietro a un fiocco rosa o chiusi a chiave in qualche casa.

Forse è davvero ora di cominicare ad interrogarsi sull’invisibilizzazione dei corpi.

Cercando di tenere lontana quella che nell’immaginario comune è intesa come sofferenza, non ci si rende conto di innescare in realtà un circolo vizioso e che la vera malattia della nostra società è diventata la fobia – creata e alimentata proprio dalla censura – questa sì destinata ad autoalimentarsi trasformandosi in paura, tabù e addirittura odio, come ci dimostrano tutti i giorni anche gli atti di violenza nei confronti di chi non è ritenuto “conforme”. 

L'AUTORE
La redazione di YOUng
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