[Bufala] Martin Heidegger era antisemita?

15 Marzo 2014
Giovanni Pili
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L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione.

Jürgen Kaube sul Frankfurter Allgemeine Zeitung liquida senza appello il padre del pensiero esistenzialista come nazista e antisemita. Lo fa forte dello studio delle circa 1300 pagine dei Quaderni Neri, gli appunti di Martin Heidegger, che vanno dal 1931 al 1941.

Heidegger_1955

Martin Heidegger

A rincarare la dose ci pensa Thomas Assheuer, sul settimanale Zeit:

«Se anche in queste pagine fosse riconoscibile un pensiero, i Quaderni sono un delirio filosofico e un crimine del pensiero».

La nostra fonte è un articolo comparso nel sito del Corriere della Sera. Non si capisce comunque come Kaube possa avere avuto a disposizione i Quaderni. Le frasi attribuite ad Heidegger nell’articolo del Corriere potrebbero quindi essere false. Anche ammettendo che siano vere, in ogni modo sono già note le motivazioni delle scelte prese dal filosofo all’epoca.

Certamente il fenomeno nazista si accordava col suo pensiero (in che senso lo capiremo andando avanti con la nostra analisi, senza bisogno di fare salti carpiati) e se questa adesione rappresenta una breve parentesi lo dobbiamo al fatto che Heidegger rimase deluso dal nazismo, incapace di realizzare le aspettative che aveva creato in lui; solo che questo non c’entra con la politica razzista o con la filosofia.

Una testimonianza inequivocabile del fatto che Heidegger non poteva essere antisemita sta nella sua stessa vita affettiva, visto che fu amante della sua allieva più illustre: l’ebrea Hannah Arendt, che continuò ad avere buoni rapporti con l’ex maestro e compagno. Certo, potremmo col senno di poi fare i duri e puri, criticando il fatto che l’adesione del filosofo fosse meramente opportunistica, allora non si capisce perché gettò cattedra e tessera alle ortiche ritirandosi a vita privata fino agli anni ’60.

Oggi non si può dire, perché è politicamente scorretto, ma nelle carte d’identità israeliane è riportata la “etnia” (razza non si può dire) di chi la possiede e lo stato non si fonda sulla cittadinanza ma sull’idea di “nazione ebraica”. Ne consegue che gli ebrei vengono prima di tutti i cittadini di altre etnie presenti nei territori “occupati” (non si può dire nemmeno questo, anche se è vero) dagli israeliani: Questo è quanto afferma l’Avv. Fausto Gianelli, Presidente di Giuristi Democratici di Modena, che ha studiato il sistema giuridico israeliano, in un Convegno sulla apartheid in Israele alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, tenutosi il 14 marzo 2014.

Cerchiamo di spiegare meglio: Sostenere pubblicamente, nel ’38 come oggi, che le leggi razziali siano giustificate dal fatto che gli ebrei tendono a considerarsi diversi dagli altri per storia, cultura e “razza” non è degno di una mente tollerante e intelligente; rifletterci sopra, come fanno già grandi intellettuali ebrei del calibro di Ilan Pappe e Norman Finkelstein, significa avere una mente libera dai moduli religiosi dell’intolleranza e dell’eresia. Non saremo certo noi – convinti detrattori della bufala del negazionismo della Shoah – a giustificare in questo spazio l’abominio dell’antisemitismo.

Non di meno è importante non lasciare che questo trauma ci accechi, rinunciando a vedere gli orrori di oggi, inibendoci la capacità di approfondire e riflettere. Questo è uno dei grandi insegnamenti di pensatori come Heidegger.

Anche di Carl Gustav Jung ci risultano frasi antisemite riportate nei suoi testi. Indro Montanelli scriveva articoli esaltanti riguardo la sua esperienza fascista in Etiopia, salvo poi ricredersi anche lui.

La banalità del male, di cui la Arendt – probabilmente non a caso – scrisse uno splendido saggio, in occasione del processo ad Eichmann, è anche questo. E’ emblematico come la grande filosofa abbia subito a seguito di questo studio critiche e minacce ben più pesanti di quelle ricevute da Heidegger, che tutto sommato già all’epoca stava tornando ad essere riabilitato, nonostante non si fosse mai scusato; la Arendt venne accusata apertamente di essere una filo-nazista, solo perché faceva notare che Eichmann «non è il demonio», e che ci furono ebrei conniventi col nazismo. Stiamo parlando di persone che vivevano il loro tempo e ne respiravano la cultura – contaminata da menzogne e incomprensioni accumulatesi nel tempo – dalla quale erano determinati, diventando semplici macchine irresponsabili e rispecchianti la realtà. La banalità del male proprio a partire dai campi di concentramento segna anche il nostro tempo, parcellizzando le colpe, non più individuabili in singole persone, quindi non punibili, né correttamente quantificabili. Chi pagherà per la Nakba dei Palestinesi nel ’48? Chi per la strage di Bhopal? Nessuno, non esistono responsabili, solo ragionieri obbedienti.

Il pensiero di Heidegger ruota attorno a due pilastri della sua formazione accademica: Da un lato quello cattolico bavarese incentrato su un rilancio del tomismo, (il pensiero di Tommaso d’Aquino) ovvero di un rapporto indissolubile tra l’Io pensante e l’oggetto pensato, visti come un tutt’uno; dall’altro quello del maestro Edmund Husserl, fondatore di un neo-empirismo nuovo movimento filosofico che alcuni suoi allievi riconobbero – in maniera riduttiva – come un “vero empirismo”, battezzato dal maestro fenomenologia; in soldoni, un monito a non trascurare l’oggettività: «Ritornare alle cose stesse».

In Essere e Tempo – opera che possiamo considerare molti considerano il manifesto del pensiero esistenzialista, anche se il filosofo disconobbe questa definizione – Heidegger riflette sul fatto che l’essere non va considerato come qualcosa di fisso, che non cambia mai; la chiave di tutto non è quindi l’essere ma esserci (da sein). Noi siamo un progetto gettato; un occhio nel mondo che nemmeno apriremmo se non avessimo delle aspettative. Una somma di situazioni comunitarie, dalla famiglia alla scuola, al posto di lavoro, ecc., ci da fin dalla nascita una serie di progetti, che determinano il nostro esserci nel mondo, determinati ogni volta ad auto-progettarci. Questo lo porterà, nelle opere sucessive, a considerare l’essere nel suo manifestari come evento, non semplicemente dalla considerazione di esserci. Fermo restando che esiste una oggettività e che non tutto è interpretazione, quest’ultima rimane fondamentale per l’esistenza e non resta mai uguale. L’epoca in cui Heidegger pubblica quest’opera, rimasta incompiuta, riflette una crisi dei valori precedenti il XX Secolo, dove il positivismo scientifico e tecnologico la fanno da padroni, mentre nella Grande Guerra milioni di giovani muoiono come carne al macello nelle trincee, senza alcun motivo umano; come pezzi in un grande meccanismo.

La crisi dei valori intercettati dall’esistenzialismo troveranno nuovi interpreti in pensatori come Sartrè – che vi innesta il marxismo – e scrittori come Camus. Mentre l’importanza dell’interpretazione nel nostro esserci servirà a Gadamer nel concepire la sua ermeneutica filosofica. L’idea di una struttura che ci determina nel concepire l’oggettività del mondo sarà fondamentale nel pensiero di Foucault, mentre il suo allievo Derrida concepirà la scrittura come qualcosa che precede la parola, ed effettivamente fin dalla nascita noi abbiamo un cervello dotato di quello che potremmo chiamare “un software” già operativo, nel quale qualcosa di già scritto c’è, senza il quale non saremmo in grado di imparare, ovvero, progettarci.

Alla luce di tutto questo non è tollerabile che si possa ancora andare addosso ad Heidegger sulla base di errori di percorso che milioni di altri tedeschi, meno noti di lui, fecero. Senza contare che certi orrori non poteva conoscerli, inoltre non ci guadagnò niente, come invece capitò a numerose società multinazionali ancora attive, senza che questo minacci minimamente i loro fatturati attuali.

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