Quelle parole che fanno male al calcio

18 Aprile 2014
luciana
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1554608_563080333800000_43125219_n“La nota negativa del pomeriggio è stata il contorno: campo in pessime condizioni, pali di altezza diversa l’uno dall’altro e porta chiaramente storta e gli irripetibili insulti ricevuti sia sul campo che sugli spalti da una frangia dei tifosi partenopei, che forse chiamare tifosi è una parola grossa e che con i loro reiterati comportamenti infangano non solo la società Napoli, ma tutta la loro città.”

Questo è quanto si evince dal comunicato ufficiale diramato dalla Torres Calcio Femminile, in riferimento alla partita di recupero del Campionato di Serie A femminile, disputata lo scorso martedì presso lo Stadio Collana contro il Napoli calcio femminile e vinta dalle sarde che per ben quattro volte hanno violato la porta azzurra.

Parole che ricordano e sottolineano che esistono storie di calcio che inglobano storie di vita e storie di vita, di ordinaria e quotidiana vita, che entrano a gamba tesa nelle storie di calcio.

La discriminazione territoriale che potrebbe altresì essere diversamente denominata “repulsione territoriale” è, senza dubbio, una brutta partita, di calcio e di vita, che spropositatamente si gioca e si rigioca, su più campi: da quelli più anonimi di Prima Categoria, fino a quelli più rinomati di Serie A maschile, ma anche femminile.

In quest’ultimo caso, loro malgrado, le ragazze del Napoli Calcio Femminile sono un tangibile e palpabile esempio di quanto diffuso e radicato sia questo condannabile ed inaccettabile malcostume, nel calcio e nella coscienza sociale.

Il Napoli delle donne” è l’unica squadra che rappresenta il Sud nel Campionato di massima serie femminile e le ragazze sono, ormai, tristemente “abituate” a collezionare razzismo e discriminazione, nell’ambito delle partite disputate in trasferta, in lungo e in largo per lo stivale, il cui esempio emblematico è da rilevare nei “famosi fatti di Verona“, allorquando finanche il direttore di gara seppe rendersi protagonista di riprovevoli atti di razzismo nei confronti delle stesse calciatrici partenopee, così da indurre  perfino la Federazione a decidere per il suo stesso deferimento.

Di contro, quel serbatoio di collera, nel quale confluisce il senso di non accettazione, sugli spalti del Collana, in maniera altrettanto spropositata, sfocia in cori stolti ed atteggiamenti discutibili che scaturiscono più dall’inconsapevolezza dettata dall’immaturità di cui la tenera età si fa portatrice che non dal reale desiderio di “fare del male“.

Perché, anche se sovente tendiamo a dimenticarlo, anche le parole sono un’arma e se utilizzate impropriamente, procurano ferite, profonde e lancinanti.

E questo vale per tutte le bocche.

Più o meno erudite.

Più o meno titolate.

A prescindere dagli accenti e dal dialetto che ne bagnano cadenza ed idioma.

Quando a troneggiare è l’increscioso spettacolo che tiene banco sugli spalti, non vince nessuna squadra, piuttosto sono il calcio e la civiltà a perdere la loro partita più importante.

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