Psicopatologia delle professioni del web

8 Luglio 2014
Redazione YOUng
Per leggere questo articolo ti servono: 6minuti

Sono anni ormai che le cosiddette “professioni del Web” hanno enormi difficoltà ad affermarsi, a determinarsi e a guadagnare la stessa dignità che solitamente si riserva ad altri mestieri.

Il periodo di transizione

TransizioneNonostante la quantità di lavoratori e la necessità di manodopera, possiamo affermare di trovarci in un periodo di forte transizione. In qualche modo è possibile scorgere la costa, in lontananza, ma certamente è ancora molto lontana.

Possiamo pensare ad esempio al fatto che il digital divide impedisca l’accesso alla banda larga a circa 3 milioni di italiani. Immaginiamo anche che il mondo accademico non abbia ancora reagito energicamente alle novità, soprattutto a giudicare dall’offerta formativa e dalle scelte degli investimenti che non cavalcano affatto le nuove opportunità.

Ma i “nuovi” professionisti aumentano, crescono, si creano il proprio spazio generando profitto, svolgendo mansioni importanti.

Certo in questo modo viene a crearsi una jungla: dando un’occhiata alle BIO di Twitter, tutti sono “social – qualcosa”. Ma dando un’occhiata ai curriculum: quanti ti questi possono vantare una solida preparazione accademica nel campo della comunicazione e del marketing?

E a giudicare dal livello di preparazione delle aziende medie italiane, quanti di questi possono vantare stage ed esperienze lavorative veramente formative?

La terza ed ultima domanda che mi pongo è: quanti di questi possono pagarsi mutuo e vita – indipendentemente dalla propria famiglia – grazie a questo lavoro?

Come spesso capita una delle conseguenze della battaglia per il riconoscimento dell’utilità sociale e della professionalità, che per certi versi è della propria esistenza nella società, rischia di far esaurire le persone nelle maglie della battaglia stessa.

Sacche di autoreferenzialità

Narciso di CaravaggioIn questo senso si creano delle profonde sacche di autoreferenzialità, di fitti legami deboli tra individui accomunati dalla capacità di riconoscersi reciprocamente un ruolo all’interno del gruppo più di quanto sia possibile all’esterno. Sacche all’interno delle quali si creano concorsi, premi, classifiche, eventi, interviste, occasioni d’incontro. Un processo di mimesi nei confronti delle altre professionalità che si traduce nella replica di ciò che probabilmente si invidia o si desidera, per costruirsi la consapevolezza di poter sedere allo stesso tavolo.

Dunque suggerisco di fare un salto nel recente passato e provare a ricordarci cos’era il giornalismo poco prima dell’avvento del Web 2.0.

Mi verrebbe da pensare ad un mondo fatto di rapporti elitari, prassi stratificate, linguaggi riconosciuti e produzione di articoli senza un reale confronto col pubblico. Si parlava molto spesso ai pochi, dato che la gente comune “non può capire”.

E’ poi bastato un po’ di Web 2.0 – commenti, statistiche di accesso, analisi dei lettori – per mandare in crisi centinaia di firme. Il confronto col vasto pubblico (quello che non può capire, ndr) è diventato misurabile nella quantità e nella quantità. L’effetto di un articolo è tangibile, la discussione con il lettore auspicabile, qualcosa è cambiato.

Qualcuno che riteneva di avere milioni di lettori si è sentito ignorato, qualcun altro più famoso del previsto.

Questione di dimensioni

Una traccia di questo risiede nell’esigenza frenetica di misurarsi, di controllarsi, diavere la prova della propria consistenza: influenza, like, retweet, visite, engagement, follower, amici. È come se si vivesse sempre su una bilancia in grado di misurare il nostro presunto valore che ad ogni nostra azione ci comunica la variazione del peso. Una misurazione continua ed una costante analisi delle azioni degli altri individui che si ritengonoutili al consolidamento della propria esistenza per influenzare e modificare i passi del nostro futuro immediato.

In pratica si viene schiacciati in un eterno presente all’interno del quale ci si muove sulla base di una progettualità costruita sulle frazioni dell’immediato passato.

Immagino che ci sia una stretta correlazione con “la morbida narcosi della presenza in rete“  di cui parla Geert Lovink in Ossessioni collettive: critica dei social media:

[..] Nel tentativo di sincronizzare i propri corpi, i lavoratori prendono medicinali quli Prozac e viagra, o sostanza come cocaina e amfetamine. Applicando questa teoria a internet, notiamo due movimenti – l’espansione dell’accomulazione e la compressione del tempo – che rendono stressante lavorare online. Siamo di fronte a una sorta di “origine del caos contemporaneo”. Un caos che si manifesta quando il mondo va troppo veloce per il nostro cervello.

Nella Net Economy la flessibilità si è evoluta verso la frattalizzazione del lavoro dato che si è pagati per servizi occasionali e temporanei. Franco Berardi in Precarious Rhapsodyfotografa nitidamente un panorama agghiacciante:

Oggi la psicopatologia si manifesta con sempr emaggior chiarezza come un’epidemia sociale, più precisamente, come un’epidemia sociocomunicativa. Se vogliamo sopravvivere dobbiamo essere competitivi, e per farlo bisogna essere connessi, ricevere ed elaborare in continuazione un’immensa e crescente quantità di dati. Ciò provoca un costante stress d’attenzione e la riduzione del tempo disponibile per l’affettività.

Qual è il problema?

Franco Berardi

Per certi versi sembra quasi che si viva una condizione forzata dall’assenza di scelte, ovvero seguendo l’unica strada percorribile per sopravvivere: essere online, pubblicare su Facebook, Twittare, non spegnere mai lo smartphone, condividere ogni pensiero ed allinearsi sulle posizioni anti-conformiste (che di “anti” hanno veramente poco) usando il registro dell’eterna lamentela. Berardi:

Il problema non è la tecnologia. Occorre farsene una ragione. L’elemento distruttivo è la combinazione tra lo stress da informazione e la competizione. Dobbiamo vincere, essere i primi. Il vero effetto patogeno è la pressione neo-liberista che rende del tutto invivibile la condizione della rete – non l’abbondanza di informazioni in quanto tale.

Una delle vie di fuga che nei prossimi anni potrebbero traghettarci verso una maturità diversa passa senza dubbio attraverso l’elaborazione di una teoria critica della Rete e la consapevolezza del fatto che occorre intendere la Rete come un posto profondamente diverso dagli altri, basato su regole e opportunità diverse. È necessaria una ricerca di originalità che deve partire dai professionisti e dagli studiosi del Web per arrivare poi a tutti gli utenti.

L’iper-visibilità

Geert LovinkÈ inutile rifugiarsi in mondi paralleli costruiti ad arte per trovare il senso dello stress da competizione,  dell’iper-visibilità, delle PR senza interruzioni. Non è neanche utile trovare una propria dimensione nell’abbandono di una sfera privata e della propria personalità per guadagnare un’identità pubblica e condivisa che propone, pontifica, consiglia, risolve, agisce, crea, genera, produce. Il “pensiero pragmatico rischia di delegare in sottofondo ogni sviluppo concettuale. È cruciale proporre idee folli sotto forma di saggi, slogan, casi di studio o discussioni. Se l’umanità vuole reclamare il territorio perduto è essenziale che i concetti vengano creati e poi tradotti in azione nel mondo reale, includendovi l’attività politica, la mobilità, le culture del lavoro e le relazioni sociali, oltre che integrarli in codici e protocolli”. (Lovink)

Concludo con un invito di Lovink che adeguatamente generalizzato offre una valida ricetta per il superamento della condizione attuale:

I corsi di studio e la ricerca sui network digitali devono dichiarare la loro indipendenza. Dobbiamo lasciarsi alle spalle la consumata dialettiva del vecchio e del nuovo e la spenta atmosfera della concorrenza con carta stampata e radio-TV. E invece di discutere fino allo stremo di generiche affinità, c’è bisogno di definire le specificità di queste piattaforme emergenti. [..] Nessuno ha la pretesa di cominciare da una pagina vuota, però la fase dell’infanzia è ormai superata.

Concludo

Ecco, voglio concludere come se fossi un amico che parla ai nuovi giovani professionisti dicendo che chiunque vi abbia fatto credere che il successo professionale passi attraverso la pubblicazione di selfie, la partecipazione ad eventi a caso tanto per rimediare un badge, al numero dei follower, alle cialde di caffè che vi regalano perché taggate la casa produttrice, all’essere forzatamente gentili in rete, al baratto della propria personalità con una manciata di retweet vi ha preso per il culo.

Essere paraculi (in questo caso “paraguri”) non è una novità. Sorridere in modo falso, stringere mani, vendersi un po’ per ricevere regali, sconti o opportunità di lavoro non è affatto una novità.

Il problema è che quelli che guadagnano qualcosa comportandosi così sono pochi, il resto perdono tempo.

Ma soprattutto: smettetela di comprare patetici liberculi che sono utili solo per farsi qualche selfie colorata su Instagram, rifiutate le migliaia di guide banali e pseudo-infografiche e studiate. Tanto. Ma tanto.

 

L'AUTORE
La redazione di YOUng
SOSTIENI IL PROGETTO!
Sostienici
Quanto vale per te l’informazione indipendente e di qualità?
SOSTIENICI