L'Internet che verrà

17 Luglio 2014
Redazione YOUng
Per leggere questo articolo ti servono: 3minuti

Di tanto in tanto sembra riaffiorare nella sensibilità comune la delusione delle promesse non mantenute del Web 2.0.

Le prime pagine della narrazione del Web promettevano uno strumento libero, democratico e rivoluzionario in grado di dare una risposta ai problemi della libera circolazione dell’informazione, più in generale della conoscenza. Un’illusione collettiva che ci ha in qualche modo ipnotizzato tutti.

Credo che nessuno debba essere accusato di miopia. Nel giro di pochi anni le migliori pagine della fantascienza si sono trasformate in una realtà economicamente alla portata. Come se non bastasse Internet è entrata in ogni device portandosi dietro il miraggio del benessere economico, nuove professioni per nuove occupazioni.

La lucidità necessaria per interpretare il futuro prossimo immersi in un contesto così rivoluzionario è davvero per pochissimi.

I miraggi che ci hanno tratto in inganno sono numerosi, ma ritengo che alcuni di essi abbiano giocato – e giochino – un ruolo chiave.

Sopra i governi, sopra il mercato

Prima di tutto ci siamo concessi la libertà di immaginare Internet come uno strumento in grado di posizionarsi sopra i governi e sopra il mercato. Nel giro di pochi anni questa illusione si è ampiamente infranta contro la realtà. I meccanismi economici e finanziari che regolano sia il Web che le aziende legate ad esso, non sono altro che una delle declinazioni dello stesso capitalismo che regola il resto della nostra vita.

Il motore che aziona tutto questo immenso meccanismo si alimenta di dati e gusti personali, click, visite, pubblicità, visibilità. Niente di più, niente di meno.

I nuovi analfabeti

Prima della diffusione di Internet essere in grado di utilizzare un computer corrispondeva ad un buon livello di alfabetizzazione informatica. Negli anni successivi, complici l’allargamento del mercato, l’abbassamento dei costi, l’aumento dell’interesse economico e la crescente attenzione da parte dei nuovi colossi, l’hardware ed il software hanno iniziato un rapidissimo percorso di semplificazione.

Lo scopo è permettere a tutti i potenziali utenti di partecipare a questo grande, grandissimo gioco, indipendentemente dalle proprie capacità, dal proprio QI, dalla propria volontà (concedetemi questa esagerazione).

Ed ecco che si sono generati i nuovi “analfabeti funzionali“, i quali sanno usare Facebook – forse – ma non sanno interpretare la realtà. Coloro che “traducono il mondo paragonandolo esclusivamente alle loro esperienze dirette, e non sono capaci di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo”.

La falsa conoscenza

In questa corsa verso la semplificazione, la riduzione e la banalizzazione, le stesse concezioni di “competenza e conoscenza” rischiano di perdere colpi. Probabilmente è solo colpa del mio approccio al Web, ma ho l’impressione che una grande produzione di contenuto sia tenda a schiacciarsi sul modello “tutorial for dummies“.

Migliaia di slide che spiegano come postare una foto su Pinterest, cosa condividere su Facebook, come usare un hashtag, come scrivere “il post perfetto”.

Percepisco anche che una preoccupante quantità di persone consideri queste semplici nozioni tecniche come un bagaglio culturale importante come quello che si può maturare durante un percorso universitario, ad esempio.

Eserciti di “professionisti” che “sanno usare i social”, “sanno usare WordPress”, “sanno usare Word”. In realtà sono i social e WordPress che “si fanno usare”, i meriti vanno a loro.

Ecco, temo che i tecnicismi e gli how-to assumano un ruolo eccessivamente importante – e sicuramente sopravvalutato – a scapito delle teorie e dei ragionamenti che precedono di gran lunga lo “strumento”.

Autoreferenzialità

Credo che sia fondamentale per la dignità del Web che si chiuda il cerchio e che le energie investite “online” ricadano in qualche modo “offline”. Penso che abbia senso investire tutto questo tempo online se “offline” si possano raccogliere i frutti.

Lo immagino nell’ottica di un superamento di una dualità online-offline che in realtà esiste solo nella misura in cui l’online voglia affermarsi e trovare senso, appunto, solo online.

Temo che il click compulsivo, i retweet, i mipiace, le stelline e via dicendo, possano in qualche modo saturare il nostro desiderio di compiere azioni analoghe, ma lontano dallo schermo. Temo che in qualche modo ci possano saziare esattamente come ci sazia un’anguria: inizialmente ci si sente pieni, ma dopo un paio d’ore rimane solo il vuoto nello stomaco.

Quindi?

Questa è la mia esperienza, la mia personale visione di una narrazione che nell’arco di neanche trent’anni ha cambiato completamente connotazione.

Una storia di speranza e delusione, che spero continui con i capitoli sulla presa di coscienza e sulla consapevolezza.

Credo ci sia bisogno di impegnarsi nella costruzione di una cultura del Web, nell’elaborazione di una conoscenza collettiva che non ci dica solo che il tasto “pubblica” – guarda caso – pubblica, ma che ci aiuti a capire cause e conseguenze dei gesti e delle opportunità di cui oggi disponiamo.

 

 

L'AUTORE
La redazione di YOUng
SOSTIENI IL PROGETTO!
Sostienici
Quanto vale per te l’informazione indipendente e di qualità?
SOSTIENICI