Web washing: i panni sporchi si lavano (molto) in Rete

23 Luglio 2014
Redazione YOUng
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Web washing, reputation cleaning, crisis management: in una parola ripulire il proprio nome sul web dalle notizie che rovinano l’immagine propria o dei propri clienti. Ecco come si fa e quali sono gli esempi.

Il web è un organismo vivente che si muove nelle direzioni più disparate, a ritmi veloci e senza chiedere il permesso. Sul web ogni informazione è potenzialmente “per sempre”, perché i concetti di tempo e di memoria si dilatano e si confondono. Per questo chi occupa una posizione di prestigio o potere vuole mettersi al riparo da eventuali fughe di notizie che potrebbero generare scandali, ma anche da critiche che rischiano di dilagare e macchiare in modo indelebile un’immagine altrimenti immacolata. Ma c’è di più. Perché se pilotare contenuti, fare marketing, PR e reputation management non ha funzionato, allora ci sono le tecniche di web washing, alla lettera “lavare via dal web”, ripulirlo neanche troppo metaforicamente dalle notizie scomode.

Numerose agenzie oggi portano avanti queste attività, ormai inserite a pieno titolo nel loro portfolio di servizi. Ma attenzione: non stiamo parlando solo di VIP e politici. Fanno richieste di web washing anche candidati che vogliono mettere in luce il proprio cv o aziende che vogliono combattere la concorrenza.
Già nel 2012 la Rai italiana aveva indetto una gara per affidare a mani competenti il web reputation management dell’azienda e dei suoi vertici, Gubitosi e Tarantola.

Ma come funziona?
Sul web non è possibile cancellare ogni contenuto ritenuto dannoso per l’immagine di un utente, quindi le attività messe in campo sono inizialmente volte all’accurato monitoraggio della reputation su siti, blog, social network, chat, video, e alla creazione di una digital identity protetta, ovvero un’identità digitale studiata e attività pianificate per prevenire i rischi. Si possono usare strumenti quali ImetriX o Blogmeter, che si occupa di social intelligence. Se il problema nonostante queste strategie si presenta, si passa allora alla fase della sensibilizzazione delle fonti ed eventualmente alla pulizia dei contenuti lesivi. L’ulteriore passo può essere il link building ad hoc o il lavoro sulla SEO per far salire i contenuti a favore e nascondere nei meandri dei motori di ricerca quelli a sfavore. Insomma, se non puoi eliminarli non ti resta che provare a nasconderli.
Nel caso di Rai, esempio che ho citato poche righe sopra, oltre ai report e alla pianificazione di rito si richiedevano prese di posizione ufficiale dell’azienda, rettifiche, cura delle informazioni per non dare adito a fraintendimenti, creazione e gestione di flussi di conversazione ben canalizzati all’obiettivo aziendale.

A questo punto è lecito chiedersi quanto conti ancora l’etica. E quanto il web sia realmente “colpevole”.
A mio parere non si può prescindere da un’accurata alfabetizzazione del cliente, che deve conoscere le potenzialità ma anche i rischi degli strumenti che usa, specie se parliamo di social network dove un tweet arrogante o un errore grammaticale diventa in un attimo un TT satirico. Anche un’accurata conoscenza delle dinamiche umane (sto parlando soprattutto di psicologia comportamentale) e un quotidiano esercizio di empatia mettono al riparo dai danni. Ma in tutto questo non dimentichiamo il peso dell’etica: mettere al centro della propria attività i consumatori/elettori e generare un valore reale sono concetti da non sottovalutare.

L'AUTORE
La redazione di YOUng
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