L'oppressione economica della Palestina

4 Agosto 2014
Redazione YOUng
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“Chi ha cominciato prima?” Questa è la domanda che si ripete ossessivamente riguardo il conflitto in Palestina, dal 1948 sino ai recenti bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza. Una variante è “chi è stato prima in questo territorio?” la cui risposta, spesso, viaggia a ritroso verso tempi immemori e tocca il romanticismo degli opposti nazionalismi.

False questioni, volte a portare il centro della discussione sul relativismo- “bisogna capire le ragioni di entrambi”- oppure sull’attualismo spicciolo per falsificare la condizione delle parti in causa, giudicando gli atti in sé o i comportamenti dei singoli individui senza inserirli nel contesto- “Hamas usa scudi umani”, “Hamas continua a lanciare razzi in maniera indiscriminata”, “I leader di Hamas vivono nel lusso”- rifiutando di inquadrare le differenti ragioni di uno Stato che opprime e di un’avanguardia politico-militare di un popolo oppresso. Ragioni oggettive, queste, che vanno al di là dei comportamenti più o meno deprecabili dei singoli individui od organizzazioni.

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Occorre mettere la questione in termini oggettivi: senza riconoscere l’attributo di imperialista allo Stato d’Israele e l’esistenza di un regime di colonialismo, perpetuato da decenni contro la popolazione araba palestinese dei Territori Occupati, diviene impossibile spiegare i crimini sionisti quanto le azioni/reazioni- di ogni tipo- dei movimenti arabi di liberazione. Inoltre, la risoluzione del conflitto diverrebbe pura utopia.

La costruzione del regime di dipendenza dei Territori Occupati

Dal 1967 la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est sono state sottoposte ad un regime coloniale, volto a minare ogni possibilità di sviluppo per gli arabi palestinesi e ad ingrossare i profitti dei sionisti. Questi, sino ad ora, hanno guadagnato in maniera consistente dal regime di occupazione, in diversi modi: colonizzazione diretta delle terre coltivabili palestinesi, specie nella West Bank; utilizzo di manodopera araba a basso costo e creazione di una riserva di lavoratori funzionale a calmierare i salari; creazione di un’area sicura per le imprese israeliane, che possono esportare nei Territori diversi beni a prezzo maggiorato.

Dalla fine della Guerra dei Sei Giorni sino alla seconda metà degli anni’80, Israele si è occupata di distruggere l’economia dei Territori Occupati. L’obiettivo sionista è stato quello di rendere gli arabi incapaci di creare uno sviluppo endogeno, sabotando ogni fattore economico: terra; capitale; lavoro.

Il ferreo controllo delle risorse idriche ed il controllo militare diretto sionista su diverse terre coltivabili, ha favorito le aziende agricole israeliane a discapito di quelle arabe. Questa situazione, di concorrenza spietata, ha provocato una fuoriuscita di migliaia di arabi dal settore agricolo ed una riduzione ulteriore delle aree coltivate. In questo modo si creò una ingente massa di lavoratori di riserva destinati a lavorare nello Stato ebraico, i cui padroni hanno potuto usufruire di questa in agricoltura, industria, costruzioni e nei servizi. Per non parlare, poi, del lavoro nero impiegato specialmente in laboratori industriali clandestini. Dal 1967 al 1985, il 45% della forza lavoro della Striscia lavorava in Israele. Questo ingente salasso di manodopera ha stroncato ogni eventuale sviluppo di un efficiente settore minerario ed industriale arabo. Il 90% delle imprese nella Striscia di Gaza non superava i 7 dipendenti. Parte della borghesia palestinese, visti gli ostacoli alla propria crescita, si è legata a quella sionista al fine di creare nei Territori una sorta di “zona economica speciale” in cui le imprese israeliane siglavano dei contratti di subfornitura con delle manifatture arabe. Queste avrebbero dovuto lavorare delle materie prime e spedirle in Israele a costo concordato. Gli imprenditori israeliani hanno usufruito della dipendenza economica, in questo caso, per abbassare i costi di produzione dei propri beni. Oggetto dei suddetti contratti erano soprattutto scarpe, vestiario, tappeti.

L’accumulazione di capitale fu impedita dalla rigida politica commerciale di Israele. Questa ha reso i Territori una sorta di mercato in cattività, costretto a dipendere in tutto dalle scelte sioniste. Ad esempio, negli anni’80, nella Striscia di Gaza, provengono da Israele il 90% delle importazioni e verso esso sono dirette l’80% delle esportazioni (13% verso la Giordania). Due terzi delle entrate disponibili nella Striscia vanno ad alimentare il consumo privato per beni non prodotti nella Striscia. La condizione di prigionia economica in cui versano i palestinesi è evidente.

Lo Stato Ebraico colpì la coltivazione e la commercializzazione del cedro attraverso il divieto di impianto di nuovi alberi e di sostituzione di quelli vecchi, improduttivi. Nel 1984 fu vietata la piantagione di alberi da frutto senza il permesso delle autorità militari sioniste. Mentre è inibito l’ingresso in Israele dei prodotti arabi competitivi (cedro, fragole, zucchine, melanzane), i produttori israeliani possono inviare illimitatamente le proprie produzioni in Cisgiordania e nella Striscia.

Nel 1984, i Territori sono il secondo Paese al mondo per importazione di merci israeliane; davanti ci sono soltanto gli Stati Uniti d’America. Le esportazioni industriali arabe palestinesi furono duramente colpite dal controllo israeliano. Il risultato fu la chiusura dell’economia palestinese in se stessa; una introiezione paradossale se si guarda ad un passato- pur in un’economia maggiormente agricola- di fiorente commercio anche con l’Occidente. La tecnologia e l’alta formazione del lavoro israeliano favoriva di per sé le imprese sioniste, capaci di realizzare delle economie di scala. Tuttavia, nei Territori fu vietata l’importazione di diversi macchinari e di ogni brevetto che non provenisse da Israele. Se vi era una superiorità economica “naturale” delle imprese ebraiche ci fu un indubbio lavoro, intenzionale, volto a rendere la distanza incolmabile.

A tutto ciò si aggiunge il sistema del fisco, del credito, degli incentivi statali. Tutti volti a favorire l’economia sionista e a danneggiare quella palestinese. Dal 1967 al 1988, il regime fiscale nei Territori non ha solo coperto i costi dell’occupazione sionista ma ha generato un surplus pari a 150 milioni di dollari. Ad esempio, le fattorie israeliane di cedro poterono godere di sovvenzioni e restrizioni fiscali, al contrario di quelle nei territori, vessate dal fisco e dal dazio sulle esportazioni. Le manifatture sioniste erano avvantaggiate dal credito, da una politica protezionista, sussidi alle esportazioni, tagli alle imposte; inoltre, il Ministero del Commercio sionista diede incentivi ad oltre 300 imprese per stabilirsi nei Territori Occupati.

Lo sfruttamento economico attuale

Negli ultimi venti anni la condizione di dipendenza, sottosviluppo, colonialismo dei Territori si è consolidata grazie alla istituzionalizzazione dei rapporti coloniali tra Israele e Palestina, tramite gli accordi di Oslo. Questi sono l’effetto dei nuovi avvenimenti internazionali, tra la fine degli anni’80 e l’inizio degli anni’90, ed il nuovo equilibrio tra le forze in gioco. Da una parte c’è una OLP che si ritrova indebolita sia dal crollo dell’URSS, sia dal suo appoggio a Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo, sia dall’ascesa delle forze islamiste tra i palestinesi nei Territori e nei campi profughi; dall’altra parte vi è una Israele superiore dal punto di vista economico e militare, appoggiata dagli Stati Uniti al culmine della propria potenza. Gli Usa, fin dalla crisi petrolifera degli anni’70, hanno intenzione di stabilizzare la situazione del conflitto israelo-palestinese visti gli effetti negativi che esso può avere sulla propria economia.

Israele seppe accrescere il proprio potere contrattuale negli accordi tramite la gestione accurata della situazione creatasi tra la Prima Intifada e la Guerra del Golfo. La rivolta popolare palestinese provocò notevoli restrizioni all’ingresso della forza lavoro araba in Israele; il sostegno accordato da Arafat all’Iraq in guerra contro il Kuwait, provocò il blocco degli aiuti economici da parte di numerosi paesi arabi, dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. Gli effetti disastrosi di ciò si comprendono bene, considerando che i venti anni precedenti avevano distrutto il tessuto economico dei Territori e la dipendenza nei confronti di Israele e dagli aiuti internazionali era ascesa ad alti livelli. A ciò si aggiunge un crollo dell’export palestinese, che abbassò i prezzi dei beni palestinesi. In questa situazione Cisgiordania e Gaza aumentarono esponenzialmente i propri debiti, vi era una grave mancanza di contanti.

Così, dal 1988 al 1993 i Territori furono sottoposti di fatto ad un assedio economico, che fu utile allo Stato Ebraico al fine di ridefinire i rapporti economici con essi verso una maggiore integrazione da periferie. Negli ultimi venti anni, mentre all’Autorità è stata impedita la crescita (PIL pro capite in Cisgiordania da 2000 a 2093 dollari; nella Striscia da 1230 a 1074 dollari), Israele ha aumentato il proprio PIL pro capite reale da 13800 a 32000 dollari. Se la crescita dei Territori fosse proseguita ai livelli pre Oslo, il PIL sarebbe più alto del 88%. La volontà di pacificare la situazione e lo squilibrio notevole tra le due parti, produssero gli Accordi del 1993; questi furono, di fatto, un tentativo di risolvere il conflitto in favore di Israele, senza ledere la condizione di potenza coloniale dello Stato ebraico e riconoscendo ufficialmente la subalternità della Cisgiordania e la Striscia di Gaza nella creazione della Autorità Nazionale Palestinese. Un po’ come se- nello stesso periodo- la pace tra i bianchi sudafricani e l’ANC di Mandela si fosse compiuta con un riconoscimento dell’Autorità del Bantustan anziché con uno Stato sudafricano in cui ogni cittadino- in teoria, almeno- goda dei medesimi diritti.

Fin da subito, la Pace si rivelò fittizia a causa dell’espansionismo sionista: dal 1993 al 2001 furono sottratti 14000 ettari ai palestinesi, per ampliare gli insediamenti ebraici. Oggi, dal 2005, la Striscia non ha più coloni sionisti; ciò non si deve alla buona fede di Ariel Sharon ma ad una politica di riequilibrio volta ad una ulteriore colonizzazione diretta della Cisgiordania ed alla costruzione del famigerato Muro, i cui effetti negativi sul piano economico sono più che palesi. Dal 1993 ad oggi i coloni nella West Bank sono passati da 262500 a 520000. La massiccia colonizzazione diretta- peraltro illegale- fu accompagnata, specie dal 2000, dalla costruzione di decine di checkpoint. Oggi ci sono 550 checkpoint fissi e 400 checkpoint occasionali al mese; il risultato finale è la frammentarietà del tessuto economico dell’Autorità Palestinese. Aziende occidentali dell’alta tecnologia e della sicurezza come Hecklett Packard, Intel, G4S collaborano attivamente con la realizzazione di questi sistemi di controllo dei lager sionisti.

Oggi, la colonizzazione della Cisgiordania è una grande fonte di profitti. I coloni sono sussidiati (28000 dollari per appartamento costruito) e protetti dal punto di vista economico. Israele controlla l’80% delle risorse idriche palestinesi al fine di dirottarle verso lo sviluppo dell’agricoltura coloniale. Una buona parte dell’export agricolo sionista viene dalle colonie nei Territori Occupati. Il 63% delle aree coltivate in Cisgiordania si trova nell’area C, controllata direttamente da Israele. L’esclusione araba dall’uso di tale area costa all’economia palestinese ben 3.4 miliardi di dollari l’anno in termini di mancato sfruttamento delle risorse minerarie, delle terre coltivabili e del turismo. Ogni anno i coloni esportano 220 milioni di euro di beni in Europa, contro i 15 milioni dei palestinesi. I prodotti creati nella West Bank ed in Gerusalemme Est vengono nominati come “Made in Israel”. Nel sito whoprofits.org potete trovare un elenco di tutte le compagnie sioniste operanti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

Le importazioni della West Bank sono costituite per il 69.8% da merci israeliane e le sue esportazioni vanno nello Stato sionista per il 90%.

La Striscia è sottoposta al blocco dal 2007: le restrizioni all’importazione di beni si riflettono in un’accentuata dipendenza dagli aiuti alimentari. Le offensive militari sioniste e la costante minaccia di queste ha provocato un crollo drammatico del settore agricolo. Solo una piccola parte della produzione agricola della Striscia può essere esportata in Europa- attraverso Israele- grazie ad un accordo con il governo olandese. Vie aeree e marittime sono bloccate. La Marina Militare sionista ha impedito la pesca oltre 6 miglia, contro le 20 precedenti all’accordo del 1993. Il 95% dei pescatori della Striscia vive di aiuti internazionali. Il 35% delle terre agricole della Striscia non può essere coltivato, essendo interdette dal controllo militare sionista lungo il perimetro con Israele. Ciò costa perdite pari a 50 milioni di dollari l’anno. Inoltre, la disoccupazione è cresciuta- dal 1993- dal 10% al 32%, mentre la disoccupazione giovanile è oltre il 50%.

L’assedio della Striscia è una fonte di profitti per l’economia israeliana: nel 2012 sono stati acquistati prodotti israeliani per una cifra pari a 281 milioni di euro. L’elettricità e l’acqua (dalla compagnia statale Mekorot) sono vendute a caro prezzo- maggiorato dalla condizione di penuria in cui la Striscia è costretta a vivere- oltre che al di sotto del fabbisogno.

Boicottaggio economico di Israele

La lettura della situazione sociale ed economica non lascia adito a dubbi, mostrando in maniera chiara l’esistenza di uno Stato oppressore e di un popolo oppresso. La storia ci insegna come gli oppressi si siano sempre ribellati ai propri dominatori; i diritti umani universali ci insegnano che i popoli hanno diritto alla lotta per l’autodeterminazione. Assodate queste due cose, il problema israelo-palestinese va spostato dalla questione del “diritto alla difesa”o della “lotta al terrorismo” a quello della distruzione dell’oppressione. Infatti, la situazione di guerra perenne è dovuta alla natura di Israele come potenza coloniale che trae ingenti vantaggi economici dallo sfruttamento degli arabi palestinesi. La sovrastruttura ideologica sionista- come ogni nazionalismo di Stato- è volta a far permanere la società israeliana in uno stato di assedio immaginario e di ossessione nei confronti del “popolo arabo” al fine di giustificare il militarismo, violenze e crimini di ogni tipo, l’espansionismo colonialista in Cisgiordania. Così, lo Stato ebraico ha creato una unità fittizia nel popolo israeliano, mascherando i profitti che la borghesia sionista realizza grazie alla sottomissione dei Territori.

Dato il supporto politico statunitense, lo Stato Ebraico non porrà mai fine all’occupazione e non riconoscerà mai il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione sino a quando non sarà esercitata, contro esso, una forte pressione di tipo economico. L’Unione Europea dovrebbe ricoprire il ruolo principale nel boicottaggio economico di Israele; infatti, rappresenta ben il 31.1% del commercio totale dell’entità sionista con il resto del mondo.

La fine delle esportazioni europee in Israele ed il blocco dell’importazione di merci sioniste provocherebbero qualche effetto. Il blocco economico europeo dovrebbe chiedere: la rimozione degli insediamenti sionisti illegali in Cisgiordania ed in Gerusalemme Est; la fine dell’assedio militare e del blocco economico della Striscia di Gaza; la distruzione del Muro in Cisgiordania. La misura rappresenterebbe la realizzazione dell’obiettivo immediato: porre fine al genocidio palestinese ed alla colonizzazione diretta. L’obiettivo a lungo termine dovrebbe essere la fine dello Stato di Israele e la costruzione di uno Stato palestinese democratico e laico, in cui ogni cittadino abbia gli stessi diritti.

FONTI ESSENZIALI

“Area C and the future of the Palestinian Economy”, World Bank (2013)

“20 fatti: 20 anni dagli Accordi di Oslo”, Oxfam (2013)

Sara Roy, “The Gaza Strip: A Case of Economic De-Development”, Journal of Palestine Studies (1987)

Sara Roy, “Failing Peace”, Pluto Press (2007)

R.T. Naylor, “Patriots and Profiteers: economic warfare, embargo busting and State-sponsored crimes”, McGill-Queen’s University Press 2008

Noam Chomsky, Ilan Pappe, “Ultima Fermata Gaza”, Ponte delle Grazie (2010)

Alessandro Aruffo, “Questione Ebraica e Questione Israeliana” Datanews (2005)

Anna Maria Brancato, “La storia. Israele-Gaza e i fantomatici accordi di pace”, SpondaSud news (19 luglio 2014)

“Made in Israel: Agricultural Exports from Occupied Territories”, Who Profits: The Israeli Occupation Industry (2014)

Gisha: Legal Center for Freedom of Movement (gisha.org)

Palestinian Central Bureau of Statistics

“European Union, Trade in goods with Israel”, European Commission (2006)

L'AUTORE
La redazione di YOUng
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