Le istruzioni per far male

20 Novembre 2014
gianrolando scaringi
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maleHo sempre avuto la strana sensazione che noi maschietti fossimo tarati per far male, per far soffrire le fanciulle nelle relazioni. Una sorta di marchio, di sigillo di triste qualità che ci fa far male con un’onesta inconsapevolezza (quando non lo si fa volontariamente). E fa star male anche noi, tremendamente, da avere paura.

Si comincia da piccini. Ricordo quando mia nonna, per richiamarmi da qualche marachella, mi diceva, nella sua dolcezza: «fai il bravo, sennò mamma piange». Inutile a dirsi, su quel richiamo ci passavo decisamente sopra. Per quale motivo, se io avessi fatto il cattivo, mamma avrebbe dovuto piangere? Diciamola, ero un bambino abbastanza tranquillo, che si consolava con pallone e l’immancabile canestro giù in cortile. Ma, sono sincero, non ho mai rotto un vetro. Poi, un giorno, scoprii mamma in lacrime dopo uno di quei «guai» che succedono per caso. Nemmeno troppo grave, a pensarci bene. Non era stata una marachella, solo una disattenzione, per troppa curiosità, nel salone di casa: avevo rotto una bomboniera a cui mamma teneva tanto. Nonna aveva ragione.

Da quel giorno, iniziai a capire che, con mamma, con nonna, con la zia, con la cuginetta («la devi volere bene, perché lei è femminuccia», mio nonno non smetteva mai di dirlo), con la nipote della vicina dovevo comportarmi in maniera differente.

Le difficoltà non mancavano, in questa ricerca di nuova educazione ai rapporti sociali con l’altro sesso. Per quanto potevi essere gentile, educato, carino, paziente (con la cuginetta soprattutto, che voleva sempre quello con cui giocavo io… e mi toccava lasciarglielo) finivi sempre per fare qualcosa che faceva loro tanto male. Non era la spinta, lo «scontro di gioco» (in un gineceo del genere, il pallone era orientato esclusivamente verso la pallavolo) ma, piuttosto una parola, un commento, una frase, un giudizio in più fuori posto. Ed, ecco, compariva il muso lungo, un silenzio imbarazzante e, spesso, tra una mia inopportuna risata, il pianto. Cominciavi, allora, a capire che il «far male» non era solo quello fisico o provocato da qualche mancanza (come il caso della bomboniera rotta) ma più intimo, personale.

Ancora oggi, dopo tanto tempo, non credo di essere in grado di saper custodire un cuore, far sì che non soffra. Credo che nessuno di noi uomini, anche se non lo diciamo, se siamo consapevoli. Spesso facciamo male senza saperlo, magari in una serata tra amici quando, tra le risate, si rincorre qualche battuta di troppo. Così, la spensierata e superficiale noncuranza, che tu credevi conclusa in allegria sotto casa sua, appena accompagnata, anche se ti insospettiva qualche sua risposta, finisce per svegliarti nella notte, da un messaggio che, sai, nasconde dietro almeno una mezz’ora di lacrime. E tu la chiami – una, due, tre volte, finché non risponde – e non ti basta la notte per smettere di aver paura che quel pianto possa non finire mai.

«Promettimi che sarai dolce con me». È una promessa che ricordo con una certa emozione. «Promettimi che sarai dolce con me, che sarai gentile». Era estate, era Baia Domizia, avevo quindici anni. Non ricordo il nome di quel dolce, innocente amore estivo. Però ricordo quella promessa, la ricordo bene. Ricordo la sorpresa nel sentire una richiesta così. Lì per lì non capivo, era strana, la guardai e dissi «sì, certo, lo sarò!». Fu difficile tenerle fede. La dolcezza non è una carezza, non è un bacio, non è una frase d’amore. La dolcezza è l’attitudine ad entrare in un cuore in punta di piedi, l’attitudine a sentirsi ospiti, seppur amati, nel cuore altrui. L’attitudine alla paura che si ha in casa altrui quando tutto è fragile e potrebbe rompersi da un momento all’altro. Lo capii un po’ alla volta, soffrendo tantissimo e finendo per far soffrire anche lei. Ogni amore ti parlerà per tutta la vita. Anche questo, noi uomini, finiamo per non dirlo mai.

Per non far soffrire, dovremmo prendere lezioni di paura. Dovremmo educarci allo spavento. Dovremmo iniziare a preoccuparci di quello che possiamo fare, senza volerlo, solo per quello che siamo. Dovremmo imparare a controllarci, soprattutto nelle piccole cose che fanno le nostre relazioni d’affetto e d’amore. Quella indesiderata attitudine a far male la capiremmo solo con l’attenzione, con l’attitudine a pesare ogni gesto con la giusta paura. Così come ci corre un brivido, facendo una carezza o un abbraccio, terrorizzati dall’idea che quelle stesse mani possano far tanto male e che potremmo esserne capaci proprio noi, che un attimo prima abbiamo stretto forte e dolcemente come non mai, così dovremmo imparare ad aver paura di parlare, di profferire parola. Dovremmo aver paura di poter colpire un cuore con lo stesso terrore che abbiamo di colpire un corpo.

Sembrano istruzioni semplici, dalla facile applicazione, ma non lo sono mai. L’amore non ha in allegato un bugiardino, non c’è una guida su CD o scaricabile sul web. L’amore richiede attenzione, richiede premura, richiede ascolto, richiede pazienza e sacrificio. Richiede una notte insonne, e un’altra, un’altra, un’altra, un’altra, un’altra ancora. Notti di lacrime, pazienza ed ascolto.

Quello che gli uomini non dicono, spesso, è che un’altra notte ad aspettare l’alba, accarezzando la vostra voce rotta al telefono, la passerebbero sempre. Ma aiutateci voi, nostre care, a far sì che non accada oltre. Un’altra notte ad aspettare l’alba la passeremmo, volentieri, abbracciati.

L'AUTORE
Giornalista atipico, ha iniziato a scrivere quando aveva 4 anni e non ha più smesso. Comunicatore per scelta, dirige e collabora con numerosi uffici stampa nazionali e non nega la sua passione vitale per il teatro e la radio.
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