Miti platonici: il Mito della Caverna

21 Novembre 2014
Redazione YOUng
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Platone, antico filosofo greco, sosteneva che la realtà che ci circonda non è altro che una proiezione della vera realtà. Secondo lui, tutto ciò che riguarda il mondo sensibile è una mera imitazione. Da qui ne deriva facilmente che l’arte, letteratura inclusa, sia una menzogna, perché non è altro che l’imitazione di quella che è già un’imitazione.

Detta così, pare che il nostro si sia contraddetto producendo libri su libri da propinare nei secoli ai poveri studenti. In qualche modo doveva pur divulgare la sua teoria, no? Quindi Platone, fra tutte le forme di letteratura conosciute, sceglie il dialogo: pur sempre un’imitazione, ma quanto più vicina possibile alla realtà. La sua divulgazione assume, allora, una veste semplice e fruibile, dato che il dialogo è l’approccio più naturale che ci possa essere fra due o più persone.

Inoltre, forse non proprio fiducioso nelle capacità intellettive dei suoi coetanei, o forse perché s’è sempre fatto così e sempre così si farà, o forse per vezzo personale ché scrivere per metafore è sempre divertente, Platone infarcisce i suoi dialoghi di miti semplici da capire e anche piuttosto belli.

Pare che i miti da lui raccontati siano tutti di suo ingegno.

Ce n’è uno che usa proprio per spiegare la sua teoria secondo la quale l’uomo viva in un mondo di imitazioni: il Mito della Caverna. Contenuto all’interno del dialogo La Repubblica, è sicuramente uno dei più noti e affascinanti.

Platone ipotizza l’esistenza di una caverna con all’interno degli uomini in catene sin dalla nascita. Essi non conoscono altra condizione se non quella in cui vivono. Stanno seduti con braccia e gambe immobilizzate, anche il capo è costretto sempre e solo in una direzione: il loro sguardo, infatti, non può spaziare ed è costretto – fisso – contro il muro in fondo alla caverna. Alle loro spalle arde un fuoco. Appena fuori dall’ingresso, c’è una stradina rialzata con un muretto; dietro questo, la vita vera, fatta di lussureggiante natura e di uomini che passano, chiacchierano e trasportano oggetti.

Cosa sentono e vedono i prigionieri di tutto ciò che avviene alle loro spalle? Solo le voci confuse e l’ombra proiettata dagli oggetti sulla parete di fronte ai loro occhi. Peraltro, tali ombre non sono generate dalla luce del sole, ma da quella del fuoco, che non è certo pura e ferma come quella solare. La loro conoscenza, quindi, è limitata alle proiezioni di una realtà che essi non conoscono davvero.

Cosa succederebbe se uno di questi riuscisse a liberarsi dalle catene? In primis, rimarrebbe infastidito dalla luce accecante del mondo, abituato com’è al buio della caverna. Gli occhi arriverebbero a far male, tanta la differenza di luminosità. Poi, a mano a mano, comincerebbe a comprendere quanto ci sia fuori dall’ambiente in cui è cresciuto.

Il fuggitivo, gradualmente, viene a conoscenza delle cose del mondo: parte da flora e fauna, incrocia gli altri uomini, poi arriva a vedere le stelle, infine il sole. La fuga dalla caverna lo pone al di sopra dei suoi ex compagni, ma il desiderio di condivisione, insito nell’animo umano, lo porta a ritornare indietro per poter spiegare agli altri.

Tornare indietro, però, comporta una temporanea cecità per le ombre proiettate sulla parete della caverna, ché gli occhi sono ancora pieni di sole. Che fiducia può ispirare chi parla di meraviglie esterne se non riesce nemmeno a vedere ciò fra cui è cresciuto? I compagni lo deridono, si arrabbiano, lo malmenano persino, trovando assurdo il suo racconto sul mondo fuori.

È facilmente intuibile che il mito (da leggere, è veramente bellissimo) sia intriso di simbolismo: ogni elemento ha un ruolo preciso nello spiegare i livelli di conoscenza – che per Platone sono cinque – e le difficoltà che l’uomo incontra per passare da un livello all’altro. Al di là del suo alto significato filosofico, questo mito è un omaggio di Platone a Socrate, il suo maestro, che pare avesse raggiunto la Verità e volesse divulgarla, ma fu imprigionato e ucciso dai suoi detrattori con l’accusa di corruzione della gioventù.

Quindi, come si evince molto facilmente, i complottari non hanno inventato nulla. C’è arrivato prima Platone, giusto qualche secolo fa, a dire che la Verità non è mai alla portata di tutti.

E che, però, non tutti siamo Socrate, anzi.

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