L'antropologo nel Metrò e la Mafia Capitale

10 Dicembre 2014
Redazione YOUng
Per leggere questo articolo ti servono: 2minuti

Da quando, anni fa, lessi “Un Etnologo nel Metrò” di Marc Augè ho preso l’abitudine di immergermi nei discorsi che sento ogniqualvolta mi trovo sui mezzi pubblici. Confesso che non lo faccio solo per deformazione professionale, ma anche perché mi piace, per qualche minuto e con grande discrezione, intrufolarmi nelle vite degli altri per ascoltarne i problemi, le visioni del mondo, le speranze e i desideri.

Oggi ho preso di mira tre signore sulla cinquantina che, con un agile rimpallo, stavano ricostruendo la dolorosa vicenda di mafia capitale. Le tre donne hanno dato vita ad un affresco epic/acid che merita davvero di essere riportato nei suoi fatti salienti.

Allacciate le cinture di sicurezza, perché c’è da rimanerne scioccati.

Allora, tutto comincia con Piero Fassino (l’attuale Sindaco di Torino). Fassino era un brigatista rosso che negli anni ’90 (non è un refuso: negli anni Novanta) viene arrestato. A Regina Coeli conosce Buzzi e Carminati che gli propongono, una volta scontata la pena, di mettersi insieme e di fare le “rapine per diventare ricchi”. Ma Fassino, gran furbone, si era già “iscritto al PCI per uscire dal carcere”. La diabolica macchinazione di Fassino riesce, anche oltre ogni rosea aspettativa, perché non solo lascia il gabbio dopo pochi mesi ma, siccome era un brigatista, lo fanno subito capo del PCI. A quel punto la segaligna figura di Fassino scompare misteriosamente di scena: immagino che fare il capo del PCI non gli lasciasse il tempo per andare a fare le rapine per diventare ricco.

La palla passa ai fasci che, usciti di carcere grazie a Berlusconi, contattano i Casamonica. Questi elaborano una strategia criminale a orologeria: faranno arrivare dalla Romania e dall’Africa (!) orde di zingari, sia per fare le rapine, sia per fare i furti sugli autobus, sia per occupare i campi Rom (che, a quanto deduco, erano preesistenti l’arrivo degli astuti gitani). Ma i cittadini di Roma non ce li vogliono gli zingari e allora inscenano proteste tipo quella di Tor Sapienza.

A quel punto l’unica soluzione possibile è la politica. Buzzi e Carminati corrompono un po’ tutti: da Veltroni a Alemanno (ma Alemanno forse “l’hanno solo messo in mezzo, poraccio; è tanto na brava persona”; ma anche no perché “lascia sta: so’ tutti zozzoni; se c’era il Duce li fucilava e li appenneva per i piedi (sic!)”).

Il patto criminale tra mafia e politica è semplice e agghiacciante: i politici lasciano entrare a Roma gli zingari che rubano, e il diabolico duo Buzzi/Carminati in cambio dà ai politici fior di appalti per farsi le ville “nei mejo posti de Roma, mentre noi se stamo a schiattà a Tor Bella Monaca, che fa schifo che pare na fogna”. Ricostruire il perverso metodo attraverso il quale i Casamonica, il Carminati e il Buzzi riuscivano a passare gli appalti ai politici immagino darà filo da torcere alle autorità inquirenti.

Le cose vanno bene per un po’ di anni. Finché non si affaccia sulla scena l’avido Marino. Il problema è che Marino è genovese e, in quanto tale, “tirchio rabbino maledetto”. Vuole una fetta mooolto più grande della torta, anche perché in finale “la faccia ce la metteva lui; cioè lui era il primo a annà in galera”. E così “il Genovese” fa saltare i delicati equilibri criminali messi in piedi con tanta fatica e dedizione da Carminati e Buzzi (“e Fassino; nun te scordà quel bastardo de Fassino!”).

Il resto è cronaca.

L'AUTORE
La redazione di YOUng
SOSTIENI IL PROGETTO!
Sostienici
Quanto vale per te l’informazione indipendente e di qualità?
SOSTIENICI