GID: LA PUBERTA’ NEGATA

25 Gennaio 2015
Redazione YOUng
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TransGender-Symbol

Propongo questo mio articolo comparso domenica 18 gennaio 2015

su Ulisse Cronache 

(inserto settimanale di approfondimento culturale  della testata giornalistica Le cronache del salernitano).

 

Già nel 1936 Marcell Mauss, con il suo saggio Le tecniche del corpo, mostrò come ogni attitudine e ogni gesto che caratterizza la nostra identità all’interno di un contesto sociale sia culturalmente indirizzata. Secondo l’antropologo francese quindi la “costruzione” del proprio corpo e l’identificazione con esso non è semplicemente un dato naturale ma bensì un processo in fieri nel quale la componente biologica interagisce continuamente con quei fattori di esperienza individuale e collettiva che l’uomo fa grazie alla cultura di cui il contesto, in cui egli vive, si è dotato.

Azioni e comportamenti che determinano, ad esempio, l’essere maschio o femmina possono apparire naturali ma sono anche il frutto di indirizzi culturali vigenti in un gruppo, per rispondere a quella esigenza classificatoria di ciò che è normale e ciò che è deviante, del maschile e del femminile, della sessualità e del genere.

Partendo da questo presupposto, Mauss dimostra che non sempre c’è una sovrapposizione netta tra sesso, genere e sessualità. Ciò che invece è comune in ogni società è il corredo culturale di norme che plasmano comportamenti sessuali e ruoli di genere, il sex-gender-system,come lo definì Gayle Rubin nel saggio Lo scambio delle donne (1976).

Fa quindi riflettere la proposta, avanzata poco più di un anno fa (ottobre 2013) dall’Ospedale Careggi (Firenze), di avviare anche in Italia il protocollo per la somministrazione di ormoni che bloccano la crescita nei bambini fra gli 11 e 12 anni “affetti” dal cosiddetto «disturbo d’identità di genere».

Il G.i.d. (Gender identity disorder), con questa sigla è catalogato nel DSM – 5 (Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali), è descritto come una sorta di disallineamento che l’individuo avverte tra la sua identità sessuale e la sua identità di genere. Il protocollo di “cura” sperimentato ed applicato già dal 2011 dalla clinica Tavistock (Londra) prevede un trattamento ormonale che, interrompendo la crescita biologica in età puberale, concederebbe ai “bambini confusi” più tempo per decidere “cosa essere” da adulti.

L’iter di cura punterebbe ad “annullare” lo stato di “transessualità giovanile” arrestando la maturazione sessuale biologica e concedendo al “paziente” il tempo di scegliere se essere uomo o donna. Una libertà che sembra tanto assomigliare a un’imposizione.Boy Girl signpost

Una questione di potere (medico) agente sul corpo di individui che, per essere inseriti nella società occidentale con il crisma della “normalità”, hanno il “dovere” di allineare la loro identità sessuale (biologica) con la loro identità di genere.

Ma bloccare la crescita biologica di una persona non equivale a relegarla in un “limbo di indefinitezza”? Non equivale a rinnegare anche culturalmente la transessualità e quindi la condizione stessa dell’individuo che la vive? Costituisce certamente un disagio fortissimo sentirsi imprigionati in un corpo che non si sente come proprio. Al disagio se ne aggiunge altro nel momento in cui è lo stesso contesto, con i suoi istituti, a non accettare il portatore di quella condizione, sospendendone, addirittura, la crescita.

È soltanto rallentando i processi biologici che si risolvere il problema e si “reintegra” l’individuo?

Numerose etnografie sembrano mostrare il contrario. L’identità di genere è il frutto della “sedimentazione culturale”(oltre che fisica) prodottasi nel corso dell’esperienza soggettiva e sociale. È anche la collettività, determinando i caratteri delle figure che si muovono sul “palcoscenico sociale”, a generare inclusione o esclusione.

In India la transessualità è “culturalmente accettata”, integrata con delle figure sociali specifiche che rivestono un ruolo ben preciso e collettivamente riconosciuto. Serena Nanda, nelle sue ricerche, racconta come gli Hijra (uomini che diventano donne tramite pratiche chirurgiche) e i Sadhin (donne biologiche che rinunciano al matrimonio e si comportano come uomini) siano il paradigma del “terzo e quarto genere” nella società indiana. (Bisogno F., Ronzon F., Altri generi. Inversioni e variazioni di genere tra culture, Il dito e la luna, Milano, 2007)

Alla luce di tutto ciò, il “protocollo Tavistock” sembra assomigliare più a una “prigione”. Per uscirne si è “costretti” ad identificarsi, per essere contemplati in quella dicotomica “idea sociale occidentale” che sembra non ammettere un “terzo sesso”.

È forse la conseguenza di quella “pretesa biomedicale” di voler risolvere disagi e malattie agendo spesso in maniera forte solo sugli aspetti biologici di un «corpo pensante», composto da molteplici dimensioni attraverso le quali si esprime. (Scheper-Hughes N., Lock M., The Mindful Body. A prolegomenon to Future Work in Anthropology, Medical Anthropological Quarterly, New Series, 1, 1987, pp.6-41).

Un corpo, in questo caso, obbligato a scegliere da che parte stare, ad “essere coerente”, nei suoi aspetti materiali ed immateriali, ai canoni di sesso, genere e sessualità che sembrano rappresentare la vera ossessione dell’Occidente.can-stock-photo_csp11866849

 

L'AUTORE
La redazione di YOUng
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