Sul Rispetto – L’eterna lotta tra insicuri e arroganti

16 Febbraio 2015
Redazione YOUng
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Dal Vocabolario Treccani:

a) Sentimento che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità e la personalità stessa di qualcuno, e quindi ad astenersi da ogni manifestazione che possa offenderli:  il comportarsi in modo da non offendere il proprio onore, la propria dignità e personalità; , non approfittando della altrui debolezza; comportarsi verso qualcuno con la dovuta educazione, e, al contr., mancargli di r., con un comportamento offensivo, indelicato.

b) Riferito, invece che alla persona, ai suoi stessi diritti, alle sue cose, ai suoi pensieri e sentimenti

c) Sentimento e atteggiamento di riguardo, di stima e di deferenza, devota e spesso affettuosa, verso una person

d)Osservanza, esecuzione fedele e attenta di un ordine, di una regola, di una norma o di una prescrizione: rdella legge

La strutturazione di un istinto

Quello che resta all’uomo degli istinti ferini, che lo accomuna a tutte le bestie, è la tendenza ad essere territoriale. Nelle dinamiche di gruppo o sociali questa caratteristica è riscontrabile in una serie determinata  di atteggiamenti. Per quanto l’uomo asserisca di essere superiore alle bestie e di essersi specializzato nella ricerca di conoscenze “ulteriori”, certi suoi atteggiamenti, cugini di quelli ferali, non possono che dimostrare il fatto che l’uomo menta  a sé stesso.

Se l’uomo si fregia di aver inventato il concetto di “proprietà”, a lui non si possono certo attribuire quelli di “territorio”, “linea di confine”, “branco”.

L’uomo non si è mai distinto per il possesso fisiologico di armi da combattimento, eppure sa dimostrarsi tenace, competitivo, aggressivo. Certo, a modo suo.

Se un leone ha bisogno di affermare la sua autorità sugli altri guadagnandosi il titolo di “maschio alfa”, l’uomo può arrivare allo stesso risultato senza azzannare, graffiare o ringhiare: cercando di ottenere rispetto e considerazione dagli altri membri della specie (o di un piccolo gruppo dei medesimi).

Dietro la parola “rispetto” si celano una serie di macchinazioni, per lo più inconsce anziché consce, che l’uomo si trova a mettere in atto nella sua quotidianità.

Il “capo” può permettersi di “dare una strigliata” ad un suo dipendente, l’amante può fare leva sulla rapporto esclusivo che ha con il partner per fare richieste od ottenere vantaggi, di una persona “famosa”  si ha l’impressione sia superiore a tutti gli altri membri della specie.

Quello che io intendo per rispetto (etico, morale, biologico) è ben diverso da quanto sopra esposto, tuttavia mi era necessario porre la questione in quanto, a livello etologico, del rispetto di cui tutti parlano, fregiandosi di quella determinata caratteristica che è la “civiltà”, se ne vede ben poco nelle relazioni umane.

Quando due entità psicologiche entrano in relazione, resta quel residuo, abbastanza significativo, di istinto bestiale, che ci fa competere per la territorialità.

Non è dunque infrequente che una persona dal carattere mite possa essere “soverchiata” da una persona arrogante, che una persona insicura possa passare in secondo piano rispetto ad una sicura di sé, che una persona che ha difficoltà ad esprimere le proprie necessità (emotive o fisiologiche) – per “timidezza” o “insicurezza” – vedrà i suoi bisogni ignorati o realizzati in maniera minore rispetto a quelli di una persona “spavalda”.

Non conta quindi, sulla bilancia, il valore intrinseco delle persone in duello (anche se non voluto a livello consapevole) per accaparrarsi quel pezzettino di “rispetto”, conta invece quanti morsi morali e unghiate psicologiche si sia pronti a darsi nella zuffa.

Ovviamente, un carattere prostrante non potrà avere sempre la meglio in uno scontro simile, dove si aggiunge alla ferita e all’umiliazione personale quella che viene chiamata “derisione” collettiva, ovverossia, la” perdita del rispetto altrui”.

Più si combatte, da perdenti, minore sarà l’autostima del soggetto (la sua concezione delle sue “capacità militari”). Ciò avrà delle ripercussioni sul piano psicologico (cliccare qui), etico, fisiologico e, addirittura, biochimico.

L’immagine che si ha di sé gioca un ruolo importante nella psicologia umana. Essa è la figurazione della propria forza, delle proprie qualità, della propria onorevolezza, del rispetto che si riesce ad incutere sugli altri.

Come una pietra legata ad un tuffatore, la ricerca del rispetto, anche inconscia, non farà che farlo affogare.

Oggidì si usano tante strategie per ottenere il rispetto, dalla chirurgia estetica per il riconoscimento della propria bellezza (nello starsystem tale valore sarebbe comparabile a quello del danaro, altra invenzione umana), al successo economico per il riconoscimento della propria potenza (il proprio “alfismo” nelle strutture gerarchiche), al potere politico per il medesimo di cui sopra e via dicendo.

Le aspirazioni dei Vips e dei capi di stato sono però riscontrabili anche in quella fetta di popolazione che ha fatto dei socials il pulpito da cui “ringhiare” le proprie convinzioni o “effondere profumi ferini” della loro bellezza tramite le famigerate selfie. Abbiamo dunque osservato come a livello globale la “territorialità” sia ricercata, come lo sia per i grandi o piccoli gruppi di persone e come lo sia nelle relazioni tra due individui.

Inutile dunque farsene un cruccio quando una persona arrogante, ma con meno qualità di un’altra, venga riconosciuta come valente a pieni titoli e “rispettabile”.

Inutile tribolare dietro domande come “Perché nessuno mi capisce/mi rende giustizia?”, se si ha una natura incline “a non abbaiare quando qualcuno ci abbaia contro”.

Non vince il cane più grosso, vince chi abbaia di più.

Come potersi rapportare agli altri in modo “equilibrato”

Gli esperti suggeriscono di usare una strategia chiamata “assertività“.

«E’ più facile che un cammello passi per la cruna  di un ago…»

…piuttosto che il vostro “boss” o una persona con cui state vivendo un momento di stress emotivo si comporti

in maniera assertiva. Vala la pena, però, provare voi stessi a farlo.

Ad esempio, se durante una animata discussione l’altra persone va “oltre”, non dovremmo a nostra volta

alimentare il circolo delle offese, offendendola a nostra volta; dovremmo bensì cercare di comprendere i

motivi per cui quella persona è così insofferente nei nostri riguardi, magari chiedendoglielo e spiegandole, in

tono pacato, come vi sentite in merito al suo comportamento.

Non vincerete il Nobel per la Pace, ma avrete gettato un ponte per la comunicazione di certo migliore

dell’offendere-perchè-si-è-stati-offesi.

 

Uno sguardo ad Oriente

Scrive il poeta e monaco buddhista Thích Nhất Hạnh ne “Il fuoco della rabbia“:

 

«Quando qualcuno dice o fa una cosa che ci fa arrabbiare noi soffriamo e allora tendiamo a reagire cercando di farlo soffrire a sua volta, nella speranza che questo riduca la nostra personale sofferenza […] il risultato sarà una crescita esponenziale di sofferenza da entrambi le pari. Al contrario, avete bisogno entrambi di compassione e di aiuto, non di una punizione. […] Se la tua casa va a fuoco, la prima cosa da fare è cercare di spegnere l’incendio, non inseguire la persona che credi l’abbia appiccato. Mentre insegui il presunto incendiario, la tua casa andrà in fiamme. Non è saggio! Devi dirigerti verso la casa e spegnere l’incendio Lo stesso discorso vale quando ti arrabbi: se continui a interagire con l’altro litigando con lui, se cerchi di punirlo, agisci proprio come uno che insegue l’incendiario mentre la sua dimora va in fumo.»

Interessante, nevvero?

 

Cosa dice la psicanalisi “moderna”: il rapporto Uomo-Ambiente

 

Alexander Lowen, nel suo saggio “Il narcisismo: l’identità rinnegata“, espone a chiare lettere una questione

fondamentale:  «C’è qualcosa di assurdo in un modello di comportamento che pone il raggiungimento del

successo al di sopra del bisogno di amare ed essere amati. C’è qualcosa di assurdo in una persona che

rinneghi i suoi sentimenti pur di sembrare perfetta a sé stessa e agli altri. E c’è qualcosa di assurdo in una

cultura che inquina l’aria, le acque e la terra in nome di uno standard di vita più “elevato”».

Ancora:

«Uno dei modi in cui la nostra cultura alimenta la personalità narcisitica è quello di dare troppa importanza alla vittoria.Uno slogan molto diffuso dice:”vincere è la sola cosa che conta“. Un atteggiamento del genere minimizza i valori umani e subordina i sentimenti degli altri all’unico vero scopo, quello di vincere, di arrivare in vetta, di essere il numero uno. Ma la dedizione a questo obiettivo richiede il sacrificio, la negazione dei sentimenti, perché nessun ostacolo deve intralciare il cammino verso il successo»

Non ci addentriamo quivi nella trattazione dei disturbi di personalità. L’analisi di Lowen può però essere funzionale alla

comprensione della nostra fragile epoca e dei meccanismi che reggono i rapporti “di potere” tra gli individui:

«Il comportamento distruttivo ed offensivo nei confronti degli altri, come quello dei dirigenti che sfruttano i propri subordinati, si regge sul fatto che essi non vedano gli altri come persone reali, ma come oggetti da usare, alimentando un’immagine di superiorità basata sulla capacità di approfittare degli altri»

Lowen fa inoltre considerazioni sulle gerarchie ferali che determinano chi in un gruppo di individui sia meritevole di detenere il

potere:

«La tecnologia ha procurato all’uomo un senso di potere che prima non era mai esistito. Tutti ambiscono al potere, perché esso comporta indubbiamente una serie di vantaggi materiali: un re vive in un palazzo, ma la quantità di gemme che indossa non ha niente a che fare con le sue esigenze umane. Sono status symbols .Il potere conferisce uno status. Lo status stabilisce la posizione che l’individuo ha rispetto agli altri, in una solida strutturazione gerarchica. Alle origini, molto probabilmente nelle posizioni gerarchiche di rilievo dovevano esserci gli uomini più forti, più saggi e le donne più belle, così come gli animali più forti ricoprono una posizione gerarchica più elevata rispetto agli altri, accedendo per primi a diritti quali il nutrirsi e l’accoppiarsi. […] In origine, dunque, lo status apriva la strada verso il potere. Ma una volta che il potere venne a far parte della condizione umana questo rapporto si rovesciò e fu il potere a conferire uno status.»

In un altro testo, in un capitolo orientato alla trattazione della spiritualità e dei suoi valori, spende ancora parole sul rapporto

uomo-ambiente:

«Siamo diventati una cultura materialistica dominata dall’attività economica rivolta unicamente all’aumento di potere e alla  produzione di cose. L’accento esclusivo sul potere e sulle cose appartenenti al mondo esteriore mia i valori del mondo interiore, come grazia, bellezza e dignità. […] La civiltà viene identificata con la vita delle città, ma se le città di oggi sono la gloria dell’uomo, ne sono anche la vergogna.»

 

Questa ultima riflessione dello psicanalista americano riconduce ad una delle molte leggende su fantomatiche città d’oro. Una di queste storie ci viene riproposta dal regista francese Michel Ocelot nel lungometraggio animato “Les Contes de la Nuit” (2011). Nel racconto intitolato”L’eletta della Città d’Oro”, un giovane avventuriero conosce una bellissima fanciulla, che però afferma di essere molto triste a causa della sua bellezza. Dopo la strana affermazione il giovane le chiede il perché della sua tristezza e lei gli confessa che proprio in quel giorno deve essere sacrificata al fondatore della Città d’Oro: un mostro che ogni anno chiede alla popolazione, per farla beare di quello sfarzo, la più bella fanciulla del popolo. Sapendo che tutte le belle fanciulle avranno vita breve, i giovani non si interessano a loro e scelgono le altre donne, condannando le belle fanciulle ad una solitudine e ad un vuoto affettivo incolmabili.

Il giovane però, innamorato della bella ragazza, decide di opporsi. Sfida dunque il Grande Sacerdote, capo spirituale del villaggio, che ammette di aver sacrificato al “benefattore” la sua stessa figlia – dura lex, sed lex. Nessuno si schiera perciò dalla parte dello straniero, mentre la bella viene portata sull’altare sacrificale. Al sopraggiungere del drago, però, il giovane tenta il possibile per salvare la ragazza, dapprima combattendo, poi fuggendo il mostro. Infine, si lascia inghiottire da esso, con grande sorpresa da parte di tutti. Quando la sua bella lo dàoramai per vinto, il ragazzo squarcia il ventre del drago dall’intero e tutta la città perde le sue ricchezze, essendo perduto l’artefice di quelle illusioni. Il popolo, dapprima sconcertato e adirato per la scomparsa del loro “benefattore” e dei suoi doni, propone il linciaggio dell’eroe, che viene però salvato dalle donne del villaggio, che ritrovano, grazie al suo coraggio, la loro voce. Ovviamente, la storia si conclude con l’happy ending e il giovane sposa la bella fanciulla, che non prova più afflizione per la sua naturale condizione.

 

La seduzione del “necessario”

Nella storia appena raccontata, un popolo viveva nell’illusione che ciò di cui si era circondato gli fosse necessario. L’oro, un metallo che ha sempre rappresentato bellezza e potere (tanto da risultare il prediletto tra i materiali a disposizione dell’uomo per la creazione di oggetti decorativi) , aveva assunto nella storia maggior importanza della vita umana. Non però della vita umana in genere, ma rispetto a quella di una “bella” donna. Osando un percorso tortuoso, non si potrebbe forse tracciare un paragone tra quella che è l’attuale condizione della donna, strumentalizzata da una società che le fa pagare lo scotto per la sua bellezza, strumentalizzandola a suo piacimento, e la condizione delle donne del villaggio della Città d’Oro? Non sembra forse ugualmente ineluttabile – come vuole e si limita a riconoscere il Grande Capo –  il sacrificio dell’identità della donna come quello delle popolatrici della città stolta? L’uomo, privando con la sua concezione limitata la donna dei suoi attributi, la rende priva della gioia, escludendola dai piaceri dell’amore. La bella ragazza della storia non era mai stata guardata da nessuno, poiché bella. Guardarla voleva dire riconoscerla ed ammettere la propria paura. Guardarla voleva dire potersene innamorare e dover rischiare di riconsiderare le proprie posizioni. Se non fosse arrivato lo straniero, molto probabilmente gli abitanti della città avrebbero sacrificato la ragazza e, come lei, tutte le altre a venire. Avrebbero perseverato nella loro stoltezza perché il “benefattore” dava loro la gioia di risiedere in una dimora di grande lusso. Tutti gli abitanti dei villaggi limitrofi sapevano che gli abitanti di quella città avevano delle dimore sontuose…a che prezzo, però!

Al prezzo di tagliare fuori dalla propria vita le donne l’Uomo e gli uomini la Donna. Era persino diventato normale rinunciare a tutto questo, accontentandosi gli uni di sposare le donne meno belle e le altre di poter pensare di essere le “prescelte”, “eroine” che si davano al mostro per il benessere della proprie vile ville.

Non a caso il mostro è un drago. Questa figura, nelle avventure di formazione, rappresenta il superamento non soltanto di una difficoltà esteriore, ma di sé stessi. Del drago, il prestigiatore, l’autoinganno che il vivere dell’oro fosse necessario più del proprio bisogno di amore e rispetto (quello buono e sano però), hanno tutti paura. Gli uomini si autocastrano, conducendo l’esemplare migliore della propria comunità ad una fine infelice. Le donne, dopo essere cresciute senza la considerazione degli uomini, pur di ottenerla, accettano di immolarsi, di rinunciare ad essere guardate in futuro da occhi intelligenti.

Giunge, a questo punto, l’eroe. Questa parola, sdoganataci sin  dalla tenera infanzia, probabilmente è un termine che non ci dice più nulla. E’ come “Topolino”. Non ha un grande significato.

Eppure, andando a ritroso lungo la scia del suo etimo, possiamo scoprire che la radice sanscrita del termine fa riferimento a qualità non solo di forza bruta, ma anche di potenza sessuale (l’animale con lo status di gerarca che dovrebbe accedere alla riproduzione con l’esemplare femminile migliore?).

La potenza sessuale, che non è nel mero atto performativo, rende possibile la congiunzione con l’altro-da-sé, in una felice unione, basata sul riconoscimento delle sue qualità e sul rispetto di entrambi.

E’ per quel desiderio di congiunzione che l’eroe di questa storia lotta, dapprima opponendosi con veemenza allo spauracchio delle illusioni, poi fugandolo, eludendolo, correndo tra i gradoni di una città fantasma. Poi, capisce. E si lascia inghiottire. Solo dall’interno potrà vincere il suo vero, reale, nemico: il sé stesso che la società in cui era cresciuto gli aveva consegnato. Dal centro del suo auto-inganno può infine stravolgere la situazione e liberare, grazie alla “riattivazione” della voce della coscienza delle donne – in quanto riconosciute e perciò aventi riacquistato il loro “potere” – tutti gli abitanti dal loro auto-inganno: una città fatta interamente d’oro non avrebbe mai potuto ripagare la paura di vedersi strappare via mogli, compagne, figlie e sorelle. Una città d’oro non poteva valere il sacrificio di non essere amate per tutta un’esistenza.

Bastava guardarsi dentro, per capirlo.

 

Perché tanto divagar?

Tutto questo approfondimento nell’approfondimento potrebbe sembrare fuori luogo. Eppure ci sono delle motivazioni profonde che mi hanno spinta a  passare in rassegna un problema, quello della mancanza di rispetto nei rapporti interpersonali, attraverso vari tipi di “zooming“. La verità è che non esiste un’unica spiegazione al problema, al contrario: la risposta è multifattoriale (nonché impossibile da trattare esaustivamente).

Siamo passati da meccanismi territoriali, quasi ferali, che si riscontrano negli atteggiamenti dei singoli (dalle occasioni “reali” a quelle che si sviluppano sui social network), a un concetto della perdita di rispetto che l’uomo ha dei suoi simili e di sé stesso, legato alla mentalità iperproduttriva yuppie-style che ci ha reso più distanti dalle esigenze del pianeta che popoliamo.

Un inquilino che sporca gli spazi condominiali  sicuramente  non rispetta gli altri, ma non rispetta in primis sè stesso.

L’interruzione del legame Uomo-Natura ha sicuramente allontanato l’uomo da un tipo di benessere che in questi anni gli è venuto a mancare; non si spiegherebbe altrimenti la sempre maggiore richiesta di prodotti di consumo con il marchio “bio” o l’avvicinarsi, nell’ultimo trentennio, alle discipline new-ge, che affondano le loro radici in una reinterpretazione dei principi del buddhismo.

Per questo la Ville d’Or, la Città d’Oro, diventa la metafora perfetta dalla società dei consumi, dove si ha bisogno di ciò che è inutile e si fanno sacrifici enormi, privandosi di beni invece più necessari. In una società consumistica, dove tutto è ridotto alla “vanificazione” di quello che non è acquistabile, i valori spirituali si estinguono a favore di quelli monetari e i rapporti dell’uomo con il mondo si modificano sull’impalcatura di questi ultimi. Non bisogna dunque meravigliarsi che anche il rapporto più istintuale, quello tra due individui che scelgono di amarsi, venga poi ridotto ad un mero possesso.

L’altro non è Soggetto del proprio amore, ma diviene l’Oggetto dei propri desideri.

E se non li appaga –  Via ! – come lo smartphone vecchio modello di cui ci siamo disfatti perché non ci

esaltava più possederlo.

Non si tratta di maschilismo o di femminismo: entrambi, uomo e donna, sono parte lesa di un processo che non sappiamo fare a noi stessi e pretendiamo risolvano i giudici che amministrano – in malo modo – i costumi moderni.

A tal proposito, è doveroso citare il testo della psicoanalista junghiana Linda Schierse Leonard ,”La Donna Ferita“, che , a discapito di quanto possa far pensare il titolo, opera una riflessione sul ruolo destabilizzato e destabilizzante dell’uomo nella società moderna, facendo altrettanto, e in maniera più approfondita, con la figura della donna.

 

Fa’ che i tuoi amici ti rispettino piuttosto che temerti, perché l’amore segue il rispetto più che il timore l’odio.

Demostene

 

Maria Pia Dell’Omo

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L'AUTORE
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