Sfruttato, umiliato, querelato: come sono diventato giornalista

5 Marzo 2015
Redazione YOUng
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Come sono diventato giornalista? Ecco: questo breve articolo è scritto in terza persona, pur riguardandomi personalmente, perché il modo in cui il sottoscritto è diventato pubblicista – sfruttato, umiliato, persino querelato – è di per sé una notizia, ma lo è ancora più il fatto che il malcostume dello sfruttamento del lavoro dei più giovani, profondamente radicato nel giornalismo italiano, sembri interessare solo alcuni meritevoli addetti del mestiere. E non susciti interesse nell’opinione pubblica, abituata a guardare ai giornalisti come membri di una “casta”, non dissimile da quella dei politici. Alcune poche ma lodevoli voci di denuncia presenti sul web e la lotta contro il moderno schiavismo portata avanti dal Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino, stanno invece a dimostrare l’esatto contrario. Così come la storia che segue.

Verso la fine del 2012, a Teramo il da poco ventiduenne Matteo entra nella redazione del quotidiano locale cui aspirava di far parte da tempo. A febbraio del 2015, l’ormai ventiquattrenne Matteo supera il previsto colloquio e diventa giornalista pubblicista, come desiderava da quando ha iniziato la carriera, cinque anni prima. Nel mezzo, c’è tutta la normale gavetta che bisogna affrontare per cominciare ad imparare una professione che non si conosce – quasi duecento articoli, rimproveri di vario tipo, piccole inchieste su truffe edizilie e discariche abusive, strigliate per una foto dimenticata o una notizia “bucata”, alcune interviste a personaggi noti (Luca Sofri, Renato Minore e Teddy Reno), una rubrica di opinione e persino minacce ricevute di persona da ultras della squadra locale, fotografati durante un controllo della polizia. Il tutto, ovviamente, senza alcuna retribuzione. Niente di speciale, oggigiorno. Cioè che invece è fuori dall’ordinario, è il trattamento che il Direttore e un suo stretto collaboratore riservano a Matteo, dal momento in cui aumentano le richieste di venire regolarizzato per diventare pubblicista, dopo la promessa a riguardo dei vertici redazionali (“vogliamo farti diventare giornalista”, gli dice il Direttore a gennaio 2014).

Ad aprile, il Direttore mette un cappello di carta in testa, con impressa la dicitura “corona del cretino”, al giovane collaboratore, reo di aver saltato una conferenza stampa, non avendo visto il messaggio nella mail redazionale. Scatta una foto e, quasi divertito, ammonisce: “la prossima cazzata che fai, la pubblico su Facebook”. Il giorno successivo, quando Matteo va in redazione per dare il proprio saluto – al giornale, e all’idea di diventare a stretto giro pubblicista – il Direttore e lo stretto collaboratore erano già pronti a dargli il proprio, di saluto: “Sei brillante ma discontinuo” dicono, ma quando Matteo fa riferimento all’umiliante scenetta della corona del cretino, lo Stretto Collaboratore si inalbera, alza la voce e lo invita severamente a lasciare la stanza. Accompagnato il ragazzo al portone della redazione, lo spinge di fuori (non lo fa cadere per le scale, non gli procura un livido: lo spinge e basta) chiudendo con questo gesto quasi due anni di collaborazione. Il giorno dopo, lo stretto collaboratore chiama al telefono per chiedere scusa del proprio comportamento. Matteo ne prende atto, ma non intende soprassedere, e si rivolge ad un avvocato.
Tra il 3 giugno, mese in cui al giornale arriva la lettera di messa in mora scritta dal legale del giovane, e il 9 dicembre, giorno in cui davanti a rappresentante sindacale e ispettore del lavoro, aspirante giornalista ed editore firmano la conciliazione – per pagare quanto c’è da pagare, riconoscere il lavoro svolto ed evitare il tribunale – succede di tutto: Il giornale sposa la linea di smentire la verità affermata da Matteo, “ti appigli al fatto che ti abbiamo fatto entrare in redazione qualche volta per vedere come si fa un giornale” dice l’editore, forse ignorando che il giovane in redazione ci è entrato centinaia di volte; il sindacato viene informato, ma non sa come dare un mano, “in ventiquattro anni di attività sindacale non avevo mai sentito nulla di simile”, viene detto a Matteo al telefono; anche l’Ordine regionale viene a sapere dell’accaduto, il Presidente Stefano Pallotta si interessa della questione, e spera che si possa risolvere tutto con un accordo tra le parti; infine, a settembre, il giornalista Stretto Collaboratore del Direttore querela per diffamazione il giovane aspirante giornalista. Non gli è piaciuto il riferimento alla voce alzata e alla spinta, contenuto nella lettera dell’avvocato di tre mesi prima, e denuncia quindi il danno subito alla propria immagine di serio giornalista dal curriculum culturale di un certo spessore. Che si tratti palesemente di una querela intimidatoria lo suggerisce il proprio legale a Matteo, e lo si deduce dal fatto che ormai con la società editrice e Matteo era stato raggiunto un accordo di massima sulla somma da liquidare, e che – soprattutto – la querela stessa verrà ritirata a gennaio, a tempesta conclusa. Insomma, non è tutto bene, ciò che finisce bene.

Gli strumenti legali per far rispettare i propri diritti esistono, e sono vari: ci sono la vertenza sindacale, la causa in tribunale, l’indagine dell’ispettorato del lavoro e, nel caso specifico, le sanzioni del consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti. Ciò che invece spesso manca è la consapevolezza che il malcostume dello sfruttamento del lavoro, nell’ambito giornalistico, porti ad un’informazione dimezzata e di scarsa qualità, in un circolo vizioso dove chi è sottopagato, o non pagato affatto, non ha interesse a dare il proprio meglio. Se ne parla già da tempo sul web, se ne sta rendendo conto l’Ordine nazionale a partire della battaglia del presidente Iacopino contro l’attuale normativa sull’equo compenso. È però, forse, ancora troppo poco.

L'AUTORE
La redazione di YOUng
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