Gettare un ponte.

28 Maggio 2015
Redazione YOUng
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ponte                Nell’esercito romano godevano di grande rispetto gli ingegneri militari. In particolare godevano di grande rispetto i pontifices, uomini di grande esperienza e competenza a cui era affidato un compito arduo: costruire ponti. I pontifices erano soldati silenziosi, ufficiali a cui era dovuta grande stima, personaggi anche lontani dal mondo delle armi che dedicavano la vita ad unire sponde, a superare fiumi e burroni, a garantire un passaggio sicuro per truppe e uomini semplici che cercassero fortuna lungo le vie dell’impero. I pontifices custodivano il cuore pulsante dell’architettura romana, in guerra e in pace.

Qualunque fosse stata la situazione, i pontifices c’erano sempre, dalle battaglie più ardue alle feste più grandi (in cui andavano organizzate le imponenti architetture pubbliche), dalle campagne di conquista alle catastrofi naturali in cui, come, oggi l’esercito interveniva a supporto della popolazione. In ogni occasione, questi soldati-ingeneri, spesso «invisibili», erano pronti a creare l’incredibile, a costruire l’impossibile lì dove nulla poteva essere immaginato.

I pontifices custodivano le tecniche con cui si gettano i ponti. E gettare un ponte vuol dire unire due sponde, collegare due punti che, seppur raggiungibili, non possono essere legati se non facendo uno sforzo, compiendo una missione, costruendo qualcosa che, pur rispettando le identità delle sponde, le unisca attraverso qualcosa di nuovo, forse nemmeno umanamente immaginabile. Non è un caso che il Papa è pontefice, come la carica massima della antica religione pagana romana. Il Pontefice – quello con la p maiuscola – è il costruttore di ponti per antonomasia, il garante del ponte più grande ed impensabile che si possa immaginare: quello tra l’uomo e Dio.

Quando si getta un ponte si fa sempre una scelta. Siccome costruirlo vuol dire impegnarsi, spendere tempo e risorse, allora è bene non improvvisare. Un ponte deve poggiare su basi solide ma deve fare anche i conti con le esigenze. Volendo, non solo scende a compromessi, ma rappresenta esso stesso un compromesso. Un ponte chiede delle premesse, attenzione, cura nella scelta dei punti, analisi dei bisogni, ma anche calma. Ed un po’ di spazio e tempo per pensare.

Il ponte ha un’etica, è fatto per restare, magari per essere smontato, ma non è fatto per fare del male. Non si costruisce un ponte perché crolli, magari si rischia perché non sempre la terra è buona, ma deve tener conto di dove poggia. Un ponte ha bisogno di rispetto. Anzi, rispetta esso stesso quello che ha intorno quello che unisce e chi ci passa sopra. I pontifices, prima di iniziare una nuova costruzione, facevano una attenta analisi del contesto. Facevano una cosa che noi, forse, siamo abituati a fare poco: fermarci e guardare. In latino, «fermarsi e guardare», si traduce con il verbo respicere. In italiano, rispettare.

Due sponde unite da un ponte resteranno per sempre due sponde. Non si fondono, non si uniscono, non coincidono, non scompaiono. Restano due sponde diverse, due sponde lontane, due sponde che posseggono, ognuna, una distinta dignità, una storia, una forma, una geografia tutta personale.

Ci vuole coraggio per gettare un ponte. Tanto sulla terraferma quanto tra due cuori. Coraggio e volontà. Bisogna mettersi in gioco, superare dei pregiudizi e mettere in conto le incomprensioni. Nessuna sponda è perfetta – nemmeno la nostra, nemmeno noi – ma nessuno è tanto imperfetto da non poter essere raggiunto da un ponte. Occorre fermarsi a guardare, agire con cuore e con la mente, affrontare la ragionevolezza del ponte, di un ponte sicuro, che può essere percorso in entrambe le direzione. Ci vuole tanta attenzione quanta volontà di provare a costruire il ponte migliore che ci sia. E, per farlo, non è scritto da nessuna parte che la sponda migliore sia la sponda giusta.

Un ponte è tanto forte quanto fragile. Può essere spazzato via dal vento o dalle inondazioni se non ha fondamenta profonde. Oppure può sprofondare, quando si è sbagliato il calcolo rispetto alla forza del terreno su cui si poggia. Per fare un buon ponte c’è una sola strada: partire contemporaneamente da entrambe le sponde. Non si può gettare un ponte da un solo lato, va costruito partendo contemporaneamente da entrambe i lati.

All’inizio c’è solo una sponda. Me lo vedo il nostro piccolo pontifex mentre guarda di là dal fiume e pensa al ponte. Innanzitutto, bisogna andare a vedere l’altro lato, l’altra riva del fiume, rendersi conto di cosa c’è e di cosa si può fare. Allora ci si prepara per il primo, timido, guado. Si fanno quattro conti sul fiume – profondità, corrente, distanza della riva – e si parte. Si giunge dall’altro lato per la prima volta, si fa un giretto veloce, si raccoglie qualche dato e si torna indietro. Sulla riva di casa si fanno le prime riflessioni, si fanno due conti, ma senza fretta. Poi si torna dal lato opposto, si fanno altri rilievi, altre considerazioni. E si torna indietro e si ridiscute e ci si prepara a tornare dal lato opposto. Un’altra volta, due, tre, quattro. Si va avanti finché non diverrà opportuno provare a gettare un ponte.

A quel punto si inizia a guadare il fiume più seriamente. Non è più una toccata e fuga, si va sull’altra riva con costanza, si valuta il punto migliore per gettare la costruzione, il punto che sia più raggiungibile e più forte, allo stesso tempo, tale da poter sopportare le fondamenta del ponte. Ci vuole un punto solido ma non troppo più solido di quello dell’altra riva. Idealmente, il ponte si getta tra due punti quanto più simili in possibile, un punto in comune – oserei dire – che abbia, cioè, quasi le stesse caratteristiche da un lato e dall’altro, pur essendo un punto necessariamente distinto per ognuna delle rive. E si comincia a costruire, partendo, contemporaneamente, da ognuno dei due punti. Gettando prime le centine – l’arco di legno su cui poggiare i mattoni – ed andando avanti un po’ alla volta, fino a raggiungere il centro.

Un pontifex deve tener conto di chi o cosa passerà sul ponte. Perché ci attraversa un ponte deve farlo in sicurezza, senza rischi. Dovrà essere, allora, un ponte sicuro, che permetta tanto il transito quanto la sosta e che possa rappresentare anche un riparo, sotto il suo arco, quanto tutto intorno infuria la tempesta.

Allora un ponte si costruisce con premura, con responsabilità, con comprensione. Non è solo una questione tecnica, perché ogni ponte sarà diverso da un altro ed ogni riva ed ogni punto della riva dagli altri. Chi getta un ponte si mette in gioco, azzarda tenendo ben presente la posta. E lo fa per sé stesso e per tutto ciò che passerà su quel ponte. Soprattutto, non può dimenticarsi di ciò che ha costruito, mai, nemmeno dopo anni ed anni. Un ponte ha bisogno di manutenzione, di attenzione, di cura. Un ponte fatto della pietra più solida crollerà se non manutenuto a dovere. E, per ironia, un ponte di paglia, con le giuste attenzioni, può diventare un ponte di legno e, poi, di pietra. E durare per sempre.

Chi passa sul ponte aderisce a un patto: «abbi cura di me che ti sostengo ed io ti sosterrò da una riva all’altra per tutte le volte che vorrai». Ogni ponte ha la legittima pretesa di durare per sempre e guai se non fosse così. Muore solo quando si sceglie di non percorrerlo più. Ed, allora, un ponte senza nessuno che lo attraversi è un ponte finito, morto, anche quando sopravvive per anni e secoli a tutte le intemperie possibili. Resta un abbraccio a vuoto, un contatto tra due punti che non hanno più bisogno di toccarsi.

Ci sono ponti che crollano, anche se non sono fatti male. Ponti che resistono per anni, prima di crollare, e ponti, destinati ad essere eterni, che rovinano subito, appena fatti. Cosa dà resistenza al ponte non sono solo le premesse, ma anche l’onesta nel costruire. Il primo ponte che va imparato a gettare è quello verso se stessi, quello dentro di sé. Quanto più sarà solido questo, tanto più il pontifex avrà coraggio di gettare ponti. E di non soffrire quando ne vedrà cadere qualcuno, magari dopo averci lavorato tanto. Gli errori sono parte del gioco della vita e un ponte crollato non è, poi, la fine del mondo. Certo, costringerà a fare tutto da capo, a partire dal guado. Ma insegnerà tanto. E la stessa testa e lo stesso cuore che hanno fatto un ponte, se vogliono, possono costruirne ancora. Con più saggezza e competenza.

Se le strade portano in tanti luoghi, un ponte ha solo due versi di percorrenza ed unisce solo due punti. Di per sé, non è mai inizio né fine, non è mai punto d’arrivo ma sempre di partenza: anche di là dal ponte c’è una meta da raggiungere. Si dovrebbero gettare più ponti, anzi non bisognerebbe perdere occasioni per gettare ponti, per accorciare le distanze, per accogliere la possibilità che qualcuno possa avvicinarsi e che ognuno di noi può farsi più prossimo agli altri. Un ponte esiste sempre, anche quando fallisce. Diventa difficile cancellarne la memoria e ci sarà sempre qualcuno che si ricorderà di lui, anche quando sarà solo archeologia. Abbandonato e crollato, rappresenterà, a lungo, la forza di chi, nonostante tutto, ci ha provato. Come il ricordo di un ultimo lungo abbraccio, prima di un addio.

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