In un’apatica città di confine questo adolescente passa inosservato, uno dei centinaia di migliaia rifugiati che sono fuggiti dalla Siria, passando per villaggi e campi per arrivare in Giordania, solo 5 miglia da casa. Ma questo giovane uomo si porta dietro un peso – forse anche un onore – che quasi nessun altro ha. Sa che lui e i suoi amici hanno contribuito all’inizio di tutto. Hanno acceso la rivolta.
Iniziò in modo abbastanza semplice, ispirata non tanto dall’attivismo politico, quando dalla ribellione adolescenziale contro l’autorità e dalla noia. Guardò suo cugino scrivere sul muro di una scuola di Dara’a una breve, maliziosa sfida diretta al presidente bashar al assad, oculista qualificato, in riferimento alla diffusione delle rivolte nazionali. “È il tuo turno, dottore” – scrisse il cugino.
Gli episodi iniziali delle Rivolte Arabe stanno diventando sempre più lontani, il loro ricordo offuscato dalle paure su ciò che le rivoluzioni hanno portato. Il chaos in Egitto, dove gli attivisti parlano di una seconda rivoluzione; e in Tunisia, dove l’assassinio politico di questa settimana ha messo in pericolo una delle più promettenti transizioni della regione. E poi c’è la Siria, dove decine di migliaia di persone sono state uccise, centinaia di migliaia fuggite dal Paese e l’idea della nazione sta scomparendo tra spargimenti di sangue. Le brutalità della guerra hanno reso difficile ricordare, per non parlare del celebrare, l’inizio della Rivoluzione. Dopo i graffiti, il ragazzo e i suoi amici furono arrestati e torturati, scatenando quelle manifestazioni che diedero inizio alla guerra. Due anni dopo, questi giovani sono sconosciuti, nessuno li celebra come Mohamed Bouazizi, il fruttivendolo la cui auto-immolazione accese la miccia delle Rivolte Arabe, o Khaled Said, il giovane picchiato a morte dalla polizia egiziana che fece cominciare il movimento per il cambiamento.
Alcuni dei ragazzi di Dara’a sono rifugiati, come il giovane in Giordania, ora diciassettenne, che ha accettato, assieme al padre, di parlare a patto che il suo nome non venga rivelato. Dicono per protezione dei parenti ancora in Siria, ma la loro riluttanza viene anche dalla vergogna: il padre del giovane lo consegnò alla polizia per risparmiare il figlio più giovane e il ragazzo confessò i nomi di tre dei suoi amici tentando di sfuggire alle torture, che subì comunque. Pur considerando tutto ciò che è successo, alla sua famiglia e alla sua patria, il giovane dice di non avere rimpianti. “Perché dovrei? È un bene che sia accaduto,” dice durante l’incontro organizzato con altri rifugiati di Dara’a. Parlando di assad, afferma: “abbiamo scoperto chi è realmente.”
Cominciò con i graffiti. Il governo, preoccupato mentre I leader venivano rovesciati nel Mondo Arabo, reagì furiosamente all’offesa, arrestando gli adolescenti e più di una dozzina di altri ragazzi e torturandoli per settimane. I parenti del ragazzo, i vicini e centinaia di abitanti della città si riunirono in protesta, chiedendo il rilascio dei giovani. Le forze di sicurezza aprirono il fuoco sulla folla. Pensarono che la “tolleranza zero” avrebbe scongiurato un escalation di proteste. Si sbagliavano.
I dettagli della storia del ragazzo non possono essere verificati, ma combaciano con i racconti di alcuni degli altri ragazzi di Dara’a che hanno parlato di quel periodo. Tre ex residenti della città, tra cui due che vivevano nello stesso quartiere dell’adolescente e la sua famiglia, hanno confermato che fu tra i ragazzi arrestati nel marzo 2011. Raccontando di quei giorni, il giovane dice di aver passato una notte insonne dopo l’atto di sfida del cugino. Non riguardava solo i graffiti: il cugino aveva appiccato fuoco ad un chiosco della polizia lo stesso giorno, in un altro atto di sfida. L’adolescente e i suoi amici non parlavano molto di politica, ma il dissenso era ovunque in tv. Piccole proteste cominciarono a divampare a Damasco. “Era il momento giusto,” dice il ragazzo. Il mattino seguente, notò agenti dell’intelligence a scuola e non ebbe dubbi sul motivo della loro presenza. “Sapevamo cosa avevamo fatto.” Nei giorni seguenti, polizia ed esercito cominciarono ad aggirarsi per la città “giorno e notte”, irrompendo nelle case dei sospettati. Il giovane dice di essersi nascosto. “Pensavo sarebbe passato”, continua. Ma ciò non avvenne.
Quando, alla fine, la polizia bussò alla porta della famiglia, gli ufficiali minacciarono di prendere un altro dei figli. Se il padre avesse consegnato il ragazzo, promisero gli agenti, lo avrebbero trattenuto solo per un paio di giorni. Il padre acconsentì e portò il figlio al quartier generale della sicurezza. Il ragazzo cominciò a piangere, supplicandolo di riportarlo a casa. Ma il padre lo consegnò. “Tu hai la responsabilità per tutto ciò che gli accadrà,” gli disse la moglie al ritorno. Gli abusi cominciarono non appena il giovane arrivò nella prigione del paese di Suwayda, dove lo picchiarono durante l’interrogatorio. “L’hai scritto tu?” gli chiesero, era più un ordine che una domanda. Il giovane gli disse di aver lasciato la scuola quando aveva 8 anni. “Non so scrivere” disse agli agenti per tre giorni fino a quando, disperato per la violenza, confessò di aver scritto la frase, nonostante non fosse vero. Diede anche i nomi di altri tre ragazzi presenti quel giorno. Due settimane dopo l’arresto, il padre ricevette una chiamata per recarsi alla moschea Omari di Dara’a per una protesta, in parte per chiedere il rilascio della ragazzi. Circa 10 persone si erano già radunate. Il padre disse di essere convinto che “se non avessero protestato, ne avrebbero presi altri.” La manifestazione crebbe e presto videro quasi tutti i conoscenti della città.
È impossibile dire cosa sarebbe successo, se il governo di assad fosse stato più accomodante nei confronti delle manifestazioni. Gli attivisti di Dara’a insistono nel dire che le pressioni sarebbero state contenute, compromessi raggiunti, anche dopo tutti gli anni di violenta repressione. Queste speranze svanirono in fretta con l’aumento dei morti. “Non fu più possibile controllare le persone”, racconta il padre.
Qualche tempo dopo l’inizio delle proteste a Dara’a, il padre sentì dire che i ragazzi sarebbero stati liberati. L’adolescente, inconsapevole della rivolta, dice di essere stato portato su un minibus con gli altri ragazzi di Dara’a e di essere stato poi portato a casa. Quando arrivò, il padre disse che non riuscì nemmeno a riconoscerlo.
Il giovane è fuggito in Giordania un anno fa, dove ha passato il tempo cercando lavoro e sognando di tornare in Siria per combattere il regime. Circa due mesi, ha saputo che il cugino che realizzò i graffiti e che, in qualche modo, scampò all’arresto, si è unito ai ribelli per combattere. Ed è stato ucciso.
The New York Times: A Faceless Teenage Refugee Who Helped Ignite Syria’s War
Osservatorio Italo Siriano 12.02.2013
traduzione di Vanessa Marzullo